Che l’Inter vista nelle prime quindici giornate di campionato (cinica, grintosa, affamata e, infatti,vvincente) sia ormai un ricordo che inizia a diventare vecchio è fatto assodato, appurato ed empiricamente provato, ciò che però viene difficile da assodare sono le logiche di un tale imbottigliamento tanto claustrofobico quanto frustrante. Una sterilità di risultati protrattasi nove lunghissime partite è un dato angosciante e conturbante di certo non soltanto per puro vanaglorioso amor proprio, tantomeno per logiche esclusivamente legate alla classifica, il nefasto sconquasso assume caratteri ben più cupi se si pensa agli sciorinanti proclami di crescita e solidità che hanno patrocinato quella che sarebbe dovuta essere una stagione feconda e trionfante (fermo restando che l’obiettivo principale sia sempre stata la qualificazione in Champions) e che, al contrario, al rintocco delle lancette perde l’aura di magia rivelandosi fallimentare.

Tic tac,
schiocco di dita,
cucù,
la principessa non c’è più.

Se non fosse di una tristezza immane la Disney probabilmente avrebbe già il suo copione per un nuovo cartone animato, la bella Cinderella al rintocco di dicembre perde l’aura di magia, smarrisce la scarpetta e da principessa torna ad essere un’insulsa squattrinata tutto fuorché bella da vedere. Lo stupore per un inizio stagione fuori da ogni pronostico, addirittura c’è chi parlava di candidatura allo scudetto, è stato soppiantato dal clamore e dallo sgomento difficilmente eclissabili non a torto. Inter is coming, senza tregua, tutte belle trovate, begli incentivi, ma le parole restano parole e i fatti restano (non) fatti; Inter is coming ma anche Inter is gone perché è arrivata ma è poi anche andata via (ancora!), senza tregua dice(va) Spalletti e più che senza tregua avremmo preferito senza stasi – per non dire senza morte – ma, ripeto, le parole son parole i fatti restano non fatti. Non-fatti appunto perché di concreto c’è poco e tutto quello fatto fino al Chievo sembra nient’altro che una festa dalla quale la principessa in questione è fuggita perdendo la scarpetta che lascia quantomeno il ricordo concreto che non ce lo siamo inventati e nemmeno sognati.

L’andamento decrescente vertiginosamente rovinoso che dalla partita con il Chievo si è abbattuto sulla squadra di Spalletti è fatto noto e stare qui a tesserne le trame sarebbe ridondante oltre che noioso e inutile, ma una disamina della cosa sarebbe più che lecita se non fosse anch’essa fatta e rifatta; l’Inter non vince più, segna poco, quasi niente (tre gol nelle ultime sei partite, considerato che la rete di ieri nasce su autogol di Vicari), e fatica clamorosamente nella costruzione di gioco. Macchinosi, inceppati, lenti e offuscati, non trovano varchi né idee, gli uomini di Spalletti sembrano pesci gettati nel bel mezzo del Sahara. Ma come è possibile che una squadra che in 15 partite raccoglie 40 punti improvvisamente si sia dimenticata come si gioca a calcio? Le logiche di un inceppamento tale non sono razionalmente riscontrabili nell’ipotesi dell’involuzione fisica, a meno che non si tratti di una malattia trasmissibile e contagiosa, ritengo umanamente improbabile, se non impossibile, una flessione invalidante così totalizzante e diffusa, il che significa che una tale involuzione non è altro che frutto di un blackout mentale. Mentale ma non psicologico (badate bene la differenza è sottile ma sostanziale). Spalletti parla di professionisti ma il campo lo contraddice, la svogliatezza, la mancanza di lucidità e di mordente, la confusione, la staticità tutte caratteristiche che un vero professionista dovrebbe disconoscere e che, al contrario, sono gli elementi portanti dell’Inter da un po’ di tempo a questa parte. Svogliata e senza mordente: Lo era l’Inter di Mancini, lo è stata quella di De Boer e di Pioli e lo è diventata anche questa Inter di Spalletti che, per continuità chiamerò Inter 3.0. Alla luce del tanto sbandierato “Inter is coming”, il lascia passare societario dinnanzi ad un tale scempio – perché di questo si tratta – fa riflettere e in verità incazzare – lasciatemi passare il termine (incavolare sarebbe riduttivo enfaticamente, renderebbe poco l’idea)-.
Negligenza, superficialità e flessibilità mal si conciliano con gli sforzi impiegati nell’addobbare il pacchetto Inter(is coming) e, per quanto avvilente ammetterlo, tutto conduce ad un solo risultato: l’Inter non è matura e ahimè ancora fin troppo provinciale. Puntare in alto per tornare è più difficile di quanto si potesse pensare per una molteplicità di ragioni, prima fra tutte la difficoltà di riconoscere gli errori commessi e alla luce di questi fare un passo indietro, se non due. Diciamo quindi le cose per come stanno, facciamo tutti i passi indietro necessari per la rincorsa necessaria alla ripartenza purché si riparta. Il lascia passare dinnanzi ad un atteggiamento di cotanta superficialità è indecente quanto le prestazioni e i risultati conseguiti da un po’ di tempo a questa parte, la società dov’è? Perché nessuno alza la voce?
La partita di ieri contro la Spal, gran parte delle colpe imputabili a Spalletti per le scelte ostinate (di formazione, modulo, cambi…), è stata emblematica di quanto manchi mordente in primis e timore in secundis, è chiaro che per quanto Suning stia lavorando nel lungo periodo costruendo pian piano una struttura solida che parta dalle fondamenta, a quest’Inter manchi una figura di spicco che trasmetta all’ambiente austerità e rigore. Cani sciolti che abbaiano nel tentativo di reclamare qualcosa: un rinnovo, un ingaggio, una cessione, una possibilità…, tutti nel nome dei diritti, nessuno che faccia qualcosa per senso di dovere e di questo Zhang, o chi per lui, dovrebbe prenderne atto e provvedere quanto prima.
Mettere a posto le finanze era la priorità e spendere esageratamente non era possibile già ad agosto, figuriamoci a gennaio, ma mancare l’appuntamento alla qualificazione Champions significherebbe ancora una volta rientrare in quel circolo vizioso di rallentamenti che genera ulteriori problemi già ampiamente discussi e affrontati, al contempo però, per non mancare ancora una volta l’obiettivo Champions un innesto è più che necessario e Pastore potrebbe essere una svolta in quella parte di campo dimenticata (inesistente l’impostazione offensiva  in profondità dalla corsia centrale) perché come dice Spalletti, potrebbe essere colui che (finalmente) tiene unito il gregge e non soltanto per ragioni linguistiche.

 

Egle Patané