Paulo Dybala e Stephan El Shaarawy sono stati indubbiamente i simboli della vittoria della Roma ai quarti di finale di UEL contro il Milan.

Per qualche strana coincidenza, mi hanno fatto ricordare di un articolo di Emanuele Atturo su “L’Ultimo Uomo”, incentrato proprio su loro due. L’articolo è di ben otto anni fa eppure ancora oggi il suo contenuto resta eccezionalmente attuale, soprattutto se lo si collega al cammino calcistico compiuto dai due calciatori.

Nel lungo e articolato scritto, Atturo parla di Dybala e di El Shaarawy come di due “storie di predestinazione”. 

Due giocatori fattisi strada giovanissimi e posizionatisi immediatamente sotto i riflettori, tanto da far pensare di loro che:

Se adesso è così forte chissà che cosa potrà diventare. Segnare gol, guadagnarsi titoli cubitali, leggere l’eccitazione attorno: una cosa che può ripetersi centinaia e centinaia di volte, senza finire mai (Troppo forte, troppo veloce – E. Atturo)

L’argentino e l’ italo – egiziano sono quasi coetanei – solo tredici i mesi di differenza tra loro –  e sicuramente diversissimi.

Eppure sono legati da questa fama di talento precoce che ne ha segnato profondamente le rispettive carriere, esaltandole e mettendole in crisi secondo un andamento che per quanto differente ha indiscutibili tratti comuni.

A meno che non si è un talento alieno, cioè ancora più straordinario di quelli di cui stiamo parlando, al momento dell’esplosione seguirà sempre un momento di calo. Che magari è solo un momento di adattamento, di aggiustamento rispetto al contesto, e da questo punto di vista si tratta persino di un momento di crescita personale, solo che noi non riusciamo a non considerarlo come una forma di dissipazione (Troppo forte, troppo veloce – E. Atturo)

 

Se la natura ti elargisce un talento superiore alla media, non te ne starai mai tranquillo. È un dato di fatto e nel calcio si tocca ancor più con mano.

Quando Dybala arriva alla Juventus, i primi di giugno del 2015, in tanti mugugnano: la cifra pagata appare eccessiva per un ventunenne che ha giocato appena nel Palermo, ha ancora l’aspetto di un quindicenne e ha (quasi) tutto da dimostrare.

Io stessa lo guardo con diffidenza, pensando al buon Tevez che dovrà sostituire.

Non ci mette poi così tanto a prendersi la Juventus.

Senza esagerare, mi sento di dire che dalle sue gambe ( e dai suoi incantevoli gol) passa la rimonta che porta la Signora alla vittoria del quinto scudetto dell’era Andrea Agnelli.

Per El Sharaawy parliamo di un esplosione forse anche più vistosa, per il fatto che  avviene interamente in Italia.

Se Paulo riceve le stigmate del predestinato con la casacca dell’ Instituto addosso, Stephan invece fa gridare al genio del pallone da italiano in Italia, finendo a vent’anni a incantare il Milan dopo aver esordito in Serie A a 16 anni e un mese.

I paragoni con gli illustri predecessori azzurri, ovviamente, si sprecano.

Sia Dybala che El Shaarawy attirano l’attenzione non solamente per il numero di reti realizzate.

Entrambi mettono in mostra gesti tecnici non comuni che elevano immediatamente le aspettative generali.

 

Quanto più restano in evidenza, tanto più pressione e aspettative diventano imprescindibili tanto che a un certo punto sembra quasi un dovere aspettarsi rendimenti sempre crescenti.

La verità, tuttavia, è che questa linea del genio precoce non procede quasi mai priva di inevitabili cadute e conseguenti risalite. Almeno, non nel loro caso.

I due calciatori, a distanza di quasi un decennio dalle loro rispettive esplosioni – anno più, anno meno – hanno avuto percorsi e carriere assai differenti da quello che ci si poteva immaginare.

O forse era proprio così che doveva andare.

A volte il tuo corpo e la tua mente  ricevono così tanti doni che fanno fatica a gestirli. L’ ho pensato tante volte per Paulo Dybala.

È forse un mio modo personale per esorcizzare i guai fisici, dar loro una catarsi.

C’è stato un attimo, nella stagione in cui alla Juventus allenava Pirlo, in cui ho temuto veramente che l’argentino fosse fisicamente compromesso per sempre.

Ad oggi è un calciatore che ha dovuto adattarsi, imparando ad ascoltare il proprio corpo, a fermarsi prima che il danno sia eccessivo.

Una sorta di preziosissimo contagocce, le cui stille vanno valutate e centellinate con cura.

In El Shaarawy il tutto si traduce invece nell’irrequietezza che lo ha portato da una squadra all’altra, magari proprio alla ricerca di quel prime che sembrava essergli scivolato dalle dita.

Finché l’esperienza in Cina gli ha fatto capire quale dovesse essere il suo posto e in che modo doverselo riprendere, fermandosi finalmente a Roma per scegliere, una seconda volta, i lupi della Capitale.

Entrambi hanno dovuto abbandonare la strada delle possibilità concentrandosi sulla realtà, diventando più pragmatici; imparando a prendere ciò che arriva come un’occasione preziosa,  non importa in che modalità.

E quelle che sono state le battute d’arresto, vanno lasciate alle spalle.

Non contano i rimpianti, ma i mezzi, le volte, le partite in cui si può e si deve ancora una volta fare la differenza:  anche se in un contesto differente da quello immaginato, anche se qualcuno non li ‘perdonerà’ per non essere stati quello che il mondo chiedeva.

Mi fa quasi sorridere il fatto che oggi si ritrovino a vestire la stessa maglia, condividendo quindi ancora di più questo strambo destino che li ha gettati in un batter d’occhio nel vortice e su tutte le copertine.

Un destino che li ha esaltati prestandoli ai più ardui paragoni ( Messi, Neymar) e che poi ha chiesto loro di restringersi quasi, adattandosi, cambiando pelle, ruoli, tempi in campo.

Bene tuttavia che sia un destino condiviso. Meglio ancora, se poi lo è dalla stessa parte della barricata.

Possibilmente a lungo giallorossa. 

 

Daniela Russo