Lo confesso: la vista delle lacrime di Nicolò Fagioli, ieri, dopo l’ errore che porta in vantaggio il Sassuolo sulla Juventus, mi hanno oltremodo infastidito.

A scanso di ogni equivoco, preciso che non è stato l’atto in sé a provocarmi fastidio.

Credo, anzi, che quel pianto – di frustrazione, di delusione – sia la prova inconfutabile di quanto il giovane piacentino tenga al proprio lavoro e alla Juventus.

È il reiterato parlarne, il mostrare quelle immagini ovunque – sui siti sportivi, sui social, nei video degli hightlights della gara – che proprio non riesco a digerire. 

Il gioco delle telecamere, dell’apparire, del “voyerismo” a tutti i costi ha assunto nel mondo dello sport un eccesso che non condivido.

È vero, lo sport è spettacolo. 

In quanto tale,  c’è sempre qualcuno che guarda e qualcuno che viene guardato.

Tuttavia, se un tempo ciò che stava sotto gli occhi di tutti si limitava essenzialmente all’ambito/aspetto sportivo, oggi questa voglia di guardare è andata oltre.

Come se si dovesse a tutti i costi scavare sotto la casacca dello sportivo – del calciatore – per andare a individuare i suoi pregi o meglio ancora i suoi difetti caratteriali, al fine di giudicarlo ed etichettarlo come persona, prima di tutto.

Ed ecco che il pianto di Fagioli diventa una prova della sua juventinità o un segnale di debolezza, a seconda del punto di vista di chi osserva e parla.

Il tutto senza altri strumenti se non l’immagine stessa.

Confesso, queste mie elucubrazioni sono probabilmente il frutto di una donna d’altri tempi,  forse di una persona introversa che non ama mettere sul banco pubblico la propria sfera emotiva.

Lo dico perché troppo spesso lacrime o manifestazioni di sensibilità diventano un modo feroce e ingiusto per etichettare questi ragazzi di una debolezza che in realtà è solo frutto di vane chiacchiere.

È accaduto a lungo con Paulo Dybala, ad esempio, reo di aver pianto in svariate occasioni e per questo considerato fragile e inadatto a indossare la fascia di Capitano.

E ogni volta il giro delle immagini sui social diventava un tentativo (riuscito, purtroppo nel suo caso) di trasformare necessariamente una persona, sicuramente emotiva, in una fragile. Necessariamente.

Le telecamere, in tutti gli sport, sono indispensabili.

La tecnologia aiuta non solo a scovare l’errore là dove in campo non si vede, ma anche a trasferire fuori dallo stadio suoni, immagini ed emozioni portandole a chi non può vedere dal vivo.

Attraverso quelle stesse telecamere oggi, però, si tende a eseguire un lavoro che proprio non piace.

Un lavoro che mette sotto la lente di ingrandimento emozioni, sentimenti, difficoltà dell’essere umano, arrivando a giudizi quanto mai azzardati.

Non penso sia semplice per questi ragazzi pensare di avere sempre la luce di una camera puntata addosso, che nel giro di pochi minuti porta un loro gesto, un errore, una frase detta nel momento sbagliato a fare il giro del mondo ( social, ma pur sempre mondo).

Tra l’altro, a volte, ci sono momenti talmente intimi e carichi di significato che, secondo la mia modesta opinione, non andrebbero nemmeno ripresi e divulgati.

Mi riferisco ad esempio a quel lungo, intenso abbraccio tra Vlahovic e il già citato Dybala il 9 aprile dello scorso anno, un momento così emotivamente intenso e personale che, all’epoca, mi diede quasi fastidio vi si indugiasse.

Quasi fosse stato una violazione della loro privacy, in quel momento.

Essere un personaggio pubblico – come del resto dice lo stesso aggettivo – restringe notevolmente il campo del privato.

Mostrare troppo tuttavia lo demolisce, perché perdiamo il senso del limite, ci concediamo degli eccessi che non ci sono dovuti, per cui talvolta il “personaggio pubblico” (che non coincide sempre con la persona) è costretto a chiudere, per esempio, i profili social.

Questo non vuol dire che Nicolò Fagioli debba essere inevitabilmente attaccato per quel pianto, divenuto di pubblico dominio.

Anzi, per quanto ne so, ha ricevuto molte manifestazioni di sostegno.

Il mio è solo un punto di vista.

Un modo per ricordare che lacrime, nervosismo, momenti di debolezza fanno parte dell’uomo che sta dietro allo sportivo.

Un uomo che, al pari di qualsiasi altro, credo gradisca – soprattutto in quei momenti – un minimo di riservatezza in più.

Daniela Russo