Daje aquilotti, nun se po sbaja’. Su c’e’ er maestro che ce sta’ a guarda”. Così recita la canzone di Aldo Donati, intonata dai tifosi biancocelesti prima di ogni partita della Lazio.

Ma chi era davvero Tommaso Maestrelli? E perchè è rimasto nel cuore di generazioni di tifosi biancocelesti?

La storia del “Maestro”, che ha preso le redini della squadra capitolina in Serie B portandola fino alla vittoria del suo primo scudetto, è stata scritta e riscritta in migliaia di salse e non c’è nulla che non sia già stato ampiamente raccontato.

Analizzarne i meriti sportivi sarebbe banale, nonostante si sia reso protagonista di una delle imprese più belle del calcio di quegli anni. Sarebbe più opportuno, forse, analizzare quello che è stato definito da molti il segreto che gli ha permesso di raggiungere il tricolore.

L’umanità di Tommaso Maestrelli, dote che andava ben oltre il ruolo dell’allenatore, negli anni in cui la psicologia applicata al calcio era ancora un’idea poco più che abbozzata.

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Fonte immagine: Wikipedia

Arrivato alla Lazio nel ’71, con la squadra appena retrocessa in Serie B, blinda subito Giorgio Chinaglia e lo erge a colonna portante della sua formazione. “Senza Chinaglia non posso garantire nulla”, queste le parole del tecnico che vanno in contrasto con le voci di mercato che volevano l’attaccante lontano dalla Capitale. Nonostante la fatica iniziale, le contestazioni dei tifosi che generano un ambiente ostile, le scelte di Maestrelli si rivelano corrette; la squadra centra il secondo posto e torna in Serie A al termine della stagione.

Nella stagione successiva, con gli innesti di Re Cecconi, Frustalupi, Pulici, Garlaschelli e Petrelli manca di un soffio lo scudetto, lasciando la testa della classifica alla Juventus nelle battute finali del campionato, dopo aver centrato 8 vittorie consecutive ed aver conquistato l’affetto del pubblico.

La stagione 73-74 sarà quella decisiva.

Il Maestro riesce a plasmare la sua squadra lavorando molto sull’aspetto umano, senza però tralasciare i dettami tattici. Un allenatore psicologo, per forza maggiore.

Se oggi, nelle società di calcio, è facile trovare la figura del mental coach, negli anni ’70 era impensabile un ruolo simile e spesso era proprio l’allenatore a dover far fronte ai capricci dei giocatori.

Nel caso di Maestrelli, più che di capricci, si parla di un gruppo di scapestrati, armati di pistole, che “uccidevano la noia” sparando ai lampioni o picchiandosi tra di loro in una pausa tra un allenamento e l’altro. Nonostante lo spogliatoio biancoceleste fosse diviso in due clan (Re Cecconi da un lato, Chinaglia dall’altro), l’allenatore riesce a costruire un’alchimia mostruosa tra gli undici titolari, lasciando le liti (e le risse) al campo di allenamento.

 Questo, in buona parte, il segreto di Tommaso Maestrelli: saper leggere la psicologia dei suoi giocatori e lasciare che esprimano ognuno il suo potenziale, senza tralasciare il bene comune del gruppo. Un segreto che lo porta a vincere il primo tricolore biancoceleste e ad imprimere la sua impronta nella storia della Lazio.

Lontano dalla panchina, Tommaso Maestrelli era un uomo che amava condividere il tempo con giocatori, giornalisti e personaggi del mondo del pallone.

In un’intervista rilasciata da Massimo, uno dei suoi figli, emerge come Chinaglia fosse un ospite quasi fisso di casa Maestrelli e che, addirittura, dopo il derby vinto dalla Lazio (con lo sfottò di Long John, sotto la curva sud diventato simbolo di quella partita, se non dello stesso Chinaglia) il numero 9 biancoceleste restò ospite a casa del mister per qualche giorno, per placare gli animi dei romanisti.

Se con Chinaglia il legame era decisamente più forte, non c’è stato un giocatore di quella Lazio che non sia stato ospite di pranzi o cene a casa dell’allenatore toscano.

L’uomo, prima dell’allenatore. Un misto di intelligenza, autorevolezza e generosità che gli ha permesso di compiere grandi imprese sportive, senza necessariamente avere tra le sue fila nomi altisonanti. Era il tipico allenatore che i talenti se li costruiva da solo.

Questo ha fatto con i ragazzi del ’74 e questo avrebbe continuato a fare, se la malattia non lo avesse strappato al mondo solamente due anni dopo, ad un passo dall’esperienza in Nazionale che lo avrebbe consacrato ancor di più come figura di riferimento del calcio italiano.

Micaela Monterosso