Sono bastate quattro vittorie di fila (tutte per 1-0) alla Juventus di Massimiliano Allegri.

Quattro vittorie stiracchiate – e fortunate – per scatenare tifosi e stampa, con titoloni pronti a osannare il ritorno dell’ implacabile e stravincente cortomusismo.

Lo stesso Presidente bianconero, Agnelli, aveva acclamato la teoria della vittoria risicata, con un solo gol di scarto, come quella più indicata, quella che da sempre contraddistingue il DNA bianconero.

Il pareggio fortunatissimo sul campo di San Siro contro l’Inter le la sconfitta ( da incubo) con il Sassuolo hanno riportato tutti ferocemente alla realtà.

Questa squadra non è – evidentemente – quella del primo quinquennio di Allegri e soprattutto, Allegri non è più quello conosciuto dal 2014 al 2019.

La Juventus ha subìto, nelle dieci giornate disputate, ben 13 gol segnandone a malapena 14.

Questo semplice dato, con la relativa differenza reti, mette a nudo in maniera cruda la situazione attuale della squadra bianconera.

Una squadra che  non può più vantare la solidità difensiva di un tempo, che – piacesse o meno – le conferiva sicurezza e potere sugli avversari.

Non solo: è un undici che fatica terribilmente a creare pericolosità, occasioni da rete e quindi marcature. I numeri parlano chiaro. 

Del resto, Paulo Dybala dopo la gara a Milano aveva appunto evidenziato la pochezza della fase offensiva con estrema onestà.

Di quale “Juventus che vince di cortumuso” pertanto vogliamo parlare?

Credo sarebbe onesto da parte di tutti – tifosi, allenatore, Presidente – lasciar perdere ogni forma di retorica passata per concentrarsi sul presente.

Il reparto difensivo – che tra l’altro continua a presentare l’inesorabile ballottaggio centrale  tra la vecchia guardia e Matthjis de Ligt – ha perso, in virtù proprio di questo, la sua alchimia.

L’attacco sembra girare costantemente a vuoto, con Paulo Dybala che ha smesso da tempo le vesti di raffinato marcatore, perché  chiamato inesorabilmente a cercare di avviare la manovra e costruire il gioco…

… Spesso predicando nel deserto.

Il centrocampo, ahimé, punto debole da anni, non trova pace. Soggetto a continui cambiamenti (per svariati motivi), sembra essere, malgrado l’ottimo inserimento di Locatelli e il ritorno di Arthur, il cuore del problema dell’undici della Vecchia Signora. 

Una domanda tuttavia mi ronza in testa.

La Juventus, questa Juventus, è davvero così inferiore – come organico, un organico che ha delle pecche effettive e lo sappiamo – al Napoli e al Milan?

Così tanto da giustificare il clamoroso distacco dalla vetta?

Davvero non credo.

Di certo non è la stessa di quasi tre anni fa.

Lo stesso Allegri non può – è evidente – essere lo stesso di quasi tre anni fa.

E, cosa più importante, non può fare le stesse cose che faceva prima. Non può, ad esempio, trasformare Federico Chiesa in un nuovo Cuadrado, perché questo fa inevitabilmente male alla squadra e al ragazzo.

Non può più aggrapparsi alla teoria del cestista che all’ultimo secondo coglie l’attimo e regala la vittoria, visto che questo giochino i nostri avversarlo hanno memorizzato da un pezzo.

Allegri ha bisogno di tempo per capire e per cambiare. Innanzi tutto i suoi principi, gli stessi che lo hanno reso famoso e venerato ai più, che però non sono più validi. 

Forse la cosa più difficile dell’ era di Allegri 2.0 è proprio questa: che non è più sufficiente  ricostruire la Juve.

È Massimiliano Allegri, in primis, a doverlo fare.

Oggi la Juventus viaggia a -5 punti dalla scorsa stagione, sotto la guida (angosciante) di Pirlo.

Direi che è quanto meno doveroso fare meglio.

Daniela Russo