Dopo le parole del doriano Ekdal al Parlamento Europeo sul tema omosessualità, ci si interroga su quanto il mondo del pallone sia ancora pervaso da tabù e pregiudizi.

 

Lo sport consiste nel delegare al corpo alcune delle più elevate virtù dell’animo.
(Jean Giraudoux)

Potremmo partire da questa massima per spiegare il valore profondo e il senso reale dello sport, inteso anche come superamento di sé, dei propri limiti, sia fisici che mentali.

Eh sì, quei limiti mentali che troppo spesso costituiscono non ostacoli più o meno convenzionali, ma veri e propri muri insormontabili che impediscono a chi ne è vittima di vivere serenamente la propria esistenza, nella piena libertà e nell’affermazione della propria individualità in relazione col contesto sociale.

Cosa meglio dello sport può essere d’aiuto in questo processo?

Beh si, lo sarebbe: in linea di massima lo è.

Ma come la mettiamo con chi, ancora oggi, in un’epoca di missili, reattori, stelle filanti e metropolitane (cit. Totò), non considera nemmeno alla lontana l’idea che nello sport, in qualsiasi sport, si è tutti uguali e tutti meritevoli di rispetto, indipendentemente dalle proprie idee, opinioni, stili di vita ed orientamenti sessuali???

Bel problema!

Problema sollevato e portato alla ribalta di recente, più precisamente durante l’incontro intitolato “Sport vs Omofobia”, organizzato dal Parlamento Europeo. Obiettivo dell’incontro, avvicinare le persone allo sport allontanando contestualmente i pregiudizi.

Sport VS Omofobia
Twitter

A tal proposito, ha molto colpito il videomessaggio del calciatore svedese Albin Ekdal, in forza alla Sampdoria.

Nel messaggio, Ekdal ha posto l’accento sulla difficoltà di molti suoi colleghi nel fare “coming out”. Ha rivelato che solo otto calciatori sono riusciti in questo, mentre nella la stragrande maggioranza, si tende a vivere in maniera nascosta e auto vincolante la propria sessualità per paura di reazioni negative nell’ambiente.

Un messaggio forte, duro, che mette a nudo ancora una volta, semmai ce ne fossimo dimenticati, di come purtroppo ancora oggi, un universo come quello sportivo, che dovrebbe essere pervaso da intenti vincenti, oltre che di amicizia, rispetto e sana competizione, sia invece intriso di pregiudizi e chiusura mentale.

La discriminazione, lo sberleffo che sfocia nella crudeltà, il pregiudizio, l’isolamento, sono tutti dietro l’angolo e lo sport, ahimè, non ne è esonerato, a quanto si è capito.

Perché chiudersi? Perché non poter rivelare liberamente e serenamente i propri gusti sessuali e farli convivere armoniosamente in un contesto sportivo, sia individuale che di squadra?

Perché il “diverso” fa ancora paura.

Quella strana e quasi assurda idea che la diversità sia, in certi casi, come la lebbra (o per essere più al passo con i tempi, come il coronavirus), induce a storcere il naso, a criticare, a giudicare, ad isolare:  a distruggere rapporti di amicizia magari esistenti da anni.

L’omofobia, sia verso gli uomini che verso le donne dello sport, è ancora troppo acuta ma troppo silente.

Con questo non si vuole rimarcare solo ed esclusivamente questo aspetto, ma certamente il lavoro di educazione e/o rieducazione al rispetto e all’accettazione dell’altro, in un contesto come quello sportivo, è e sarà lungo e necessiterà di pazienza, perseveranza, garbo, delicatezza nell’uso delle parole giuste da dire.

Partire dal basso, dai piccoli contesti, perché no, per iniziare e continuare un percorso il cui unico traguardo è l’armonia del saper vivere con gli altri non rinnegando se stessi e la propria natura.

Basta rette parallele, qualcosa di perpendicolare ci deve pur essere.

Tanto si sa, al mondo ci sono cose che proprio non possono stare insieme, perché a priori non stanno bene. I cavoli con la merenda, l’ananas sulla pizza, l’omofobia con lo sport.

Hanno decisamente un cattivo sapore.

Simona Cannaò