Metti un 18 febbraio qualunque e una ragazza cresciuta a pane e calcio; metti che la finale di coppa Uefa e il mondiale ’98 sono tra i suoi primi ricordi calcistici e metti un qualunque quotidiano sportivo e una mente dalla memoria lunga e la dietrologia facile, ed ecco che questo 18 febbraio non è un 18 febbraio qualunque e chiedersene il motivo sovverrebbe quasi eretico. Una data che si imbeve di un solidissimo connotato affettivo legato ad un amore quasi primordiale di cui nome e soprannome parlano da sè escludendo a priori ogni necessità di didascalia esplicativa addizionale. Narrare le gesta dell’uomo metà “dio” – metà calciatore verrebbe dispendioso e, diciamola tutta, pressoché complicato, lascio quindi che sia qualcuno più vecchio di me a farlo per ovvie ragioni. Mi soffermo piuttosto a narrare una storia un po’ diversa che in verità ha qualcosa di personale e che voglio raccontare proprio oggi per rendere testimonianza di quanto un personaggio tanto lontano a noi possa talvolta incidere nella vita di un qualunque tifoso. È una storia che parla di calcio e di tifo, di un connubio tra amore e passione: l’amore per dei colori, la passione per un gioco animato da eroi che trova espressione nei protagonisti che si succedono nelle epoche diventando icone che difficilmente verranno eclissate dal trascorrere degli anni; sebbene politicamente sia più corretto separare “Stato e Chiesa”, il confine che separa le due cose è troppo labile se è di Roberto Baggio che si parla.

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Del divin codino, come si era e tuttora si è soliti chiamarlo, non posso, per questione logistica, ricordare i veri momenti d’oro, quelli dell’esordio in A, della Fiorentina o della Juve, del pallone d’oro – arrivato l’anno in cui sono nata- tantomeno dei dissapori del passaggio dai viola alla juve, del maledetto rigore del mondiale ’94 o le diatribe con i vari tecnici, pur avendone sentito parlare o letto di di tutto e di più. Del divin codino, ricordo meno di quanto possa fare di Recoba o Stankovic, Snejider o Milito, Martins o Materazzi, eppure il divin codino è un ricordo legato all’idea stessa di calcio. Ricordo quel periodo che sebbene considerato quasi crepuscolare in cui l’aura di divino andava, se non svanendo, ma eclissandosi, dribbling e assist di perfezione ineccepibile hanno rapito il cuore e le memorie. Era il ’98 ed era l’anno in cui i sudamericani padroni indiscussi dell’attacco nerazzurro avevano portato a casa il primo vero trofeo di casa Moratti figlio; approdavano all’Inter un certo Andrea Pirlo e un Roberto Baggio che nella stagione precedente aveva messo a segno 22 reti in 30 matches; era novembre e in panchina sedeva ancora Simoni ed io, nerazzurra quasi per dote innata, sentivo discutere papà e nonno sulle possibilità di vittoria; il nonno contestava all’altro il pessimismo mentre papà, per contro rimproverava la poca obiettività e ogni volta che chiedevo il motivo di tanta preoccupazione la risposta era sempre la stessa: “loro hanno vinto la coppa” ed io, ancora troppo piccola per capire la differenza tra Champions e coppa Uefa, continuavo a non capire visto che, per quanto ne sapevo, la Coppa l’avevamo vinta noi. Una cosa era certa, gli avversari avevano vinto un trofeo “più grande del nostro”, erano più forti e vincere non sembrava così semplice. Alla fine però quel calciatore dall’orecchino e dal codino scodinzolante aveva dato ragione al nonno ed era vero, Baggio era forte e Moratti non per niente aveva fatto di tutto per portarlo all’Inter. Da quel giorno quel Roby Baggio, quel numero 10 tanto idolatrato da nonno e non solo, iniziava a convincere pure me, forse per una questione più affettiva che di merito, forse perché per dirla alla “Nonno maniera” ubriacava l’avversario e un po’ anche io mi perdevo tra i suoi fraseggi; fu così che si aggiudicò un posto da podio tra le icone (le primissime) di un amore ancora oggi vivido e traboccante nato ai tempi in cui a traboccare era l’immensità di quel numero 10. Complice il periodo tutt’altro che roseo per i meneghini, in nerazzurro le gesta epiche di Roby non sono incommensurabili e il pelide Achille risentiva dello scemante effetto di d’ambrosia e sebbene il periodo di titolarità fissa sotto la guida del tecnico romeno Lucescu succeduto a Simoni, l’entusiasmo personale e generale venne spento dagli esisti infausti della stagione divenuta in toto fallimentare quando gli ex compagni del divin codino soffiano la qualificazione in Coppa Uefa. Come se la già traballante e tutt’altro che gioviale stagione non fosse stata abbastanza, a peggiorare le sorti due arrivi che minano definitivamente lo sposalizio Baggio-Inter: Lippi in panchina e Cristhian Vieri in attacco. Bobo Vieri, acquistato ad un prezzo esorbitante (70 mln circa più il cartellino di Diego Simeone) prelevato dalla Lazio per creare la diade stellare Ronaldo-Vieri, lo spodestava inevitabilmente dal già traballante posto da titolare; il rapporto con Lippi, mai sbocciato e incrinatosi definitivamente per quelli che passarono come “le richieste di spionaggio negli spogliatoi” (sempre smentite da Lippi), culminò in un vero e proprio ostracismo placatosi solo grazie alle necessità di sopperire al vuoto offensivo lasciato dai vari infortuni di Vieri e il terribile infortunio di Ronaldo nella finale di coppa Italia contro la Lazio. Qualche settimana dopo, infatti, si giocò lo spareggio contro il Parma per la qualificazione in Champions, qualificazione raggiunta grazie alla doppietta del divin codino e la complicità di Zamorano. 


Quella doppietta mise per iscritto, in modo esemplare, l’addio di Baggio all’inter; addio che, sebbene fosse ben lungi dalla volontà del giocatore, arrivò proprio in occasione di scadenza del contratto e rinnovo al tecnico secondo i patti stabiliti da patron Moratti (aveva prestabilito la permanenza di Lippi in caso di qualificazione in Champions).

I cross, gli assist, i tu per tu col portiere, il tocco di sinistro per iniziare a dribblare e il potentissimo e miratissimo destro per metterla a segno, la freddezza e la precisone e quel suo gioco in bilico tra numero 9 e numero 10 tanto da essere stato definito 9 e mezzo, gli abbracci con Zamorano, Zanetti e Ronaldo;

n_inter_ivan_zamorano-4661257

numeridieci_05_672-458_resizeil sorriso e le braccia in alto, il codino e l’orecchino… Roby Baggio a torto o ragione, ancor prima di Ibra o Balotelli, risiede in uno dei ricordi più belli e quasi atavici del legame che intercorre tra me e il calcio, un legame che sa, come ribadito, di un amore senza condizioni, un amore che ineluttabilmente include il nome Roberto Baggio un Roby Baggio crepuscolare ma immenso. Il ricordo un giorno potrà affievolirsi al punto da sparire ma, l’aver lasciato un segno tanto profondo da orientare le direttive di una passione è un merito che non potrà svanire come l’aura epica che non smetterà mai di trascinarsi dietro.

 

Il cuore ha il pizzetto, il codino e i calzoni corti…

50 volte grazie! Buon compleanno divin codino dai piedi fatati

Egle Patané