Dopo Giusy Versace  e il comm. Marcello Tolu abbiamo intervistato per la nostra rubrica Lo Sport che fa bene, l’atleta Arjola Dedaj. Di orgini albanesi,  ipovedente, Arjola è una ragazza dalle mille risorse, che ha saputo reinventarsi giorno dopo giorno man mano che la sua malattia si aggravava. Determinata e ottimista, ha trovato nell’atletica la sua rinascita e la sua personale sfida verso se stessa e i suoi limiti.

Arjola-Dedaj

Sappiamo che hai una storia molto particolare alle spalle, vuoi raccontarla ai nostri lettori che ancora non ti conoscono bene?

Ho vissuto in Albania fino ai 17 anni prima di venire in Italia con i miei genitori. Sono partita dall’Albania sapendo quello che lasciavo, ma non quello che avrei trovato! Io con mio fratello Elton e mio papà abbiamo raggiunto mia madre ad Abbiategrasso dove ho trascorso tanti anni importanti della mia vita. La mia infanzia e adolescenza non sono stati facili per via dei problemi di vista. A me e a mia sorella di un anno e mezzo più grande avevano diagnosticato la retinite pigmentosa già dall’età dei tre anni. Avevamo occhiali importanti e spessi, e per questo ci prendevano spesso in giro. Ho un ricordo non molto positivo di quei 17 anni proprio perché la società di quei tempi e in quei luoghi era molto povera. Purtroppo non c’era la cultura della disabilità e dell’integrazione. Il messaggio che tutti ti trasmettevano era quello dell’incapacità, erano in grado di farti sentire inutile e senza futuro. Questa delusione e questi sogni infranti venivano trasmessi anche da parenti, insegnanti e di conseguenza anche da noi bambini stessi.
Quando il 21 dicembre 1998 il viaggio verso un mondo senza frontiere si avvicinava fiorivano in me speranze, non so bene quali fossero, ma ero certa che mi attendeva un futuro migliore “e non mi sono sbagliata”! La mia prima speranza era quella di farmi vedere da altri medici e sperare che la diagnosi fatta dai medici albanesi fosse errata e ci fosse una speranza di guarigione. In realtà si sono riconfermate per diverse volte le stesse affermazioni che ho sentito in tutta la mia vita.
Allora non mi rimaneva che accettare e convivere con quello che avevo senza cercare altrove i miracoli.
Dopo diversi impieghi ho conosciuto l’Istituto Dei Ciechi di Milano e lì sono entrata in contatto con altre persone che avevano la mia stessa disabilità. Devo dire che da quel momento per me si è aperto un mondo infinito di informazioni, conoscenza, e cultura di un disabile, di quello che ero e di cosa potevo essere.
Ho imparato in primis ad accettarmi per quella che sono senza vergogna, e affrontare tutto con tanto orgoglio senza paura dei pregiudizi altrui.
Piano piano la mia vista stava peggiorando e quindi dovevo fare qualcosa per me e la mia Indipendenza e Autonomia. Ho volutamente messo in risalto queste due parole perché credo siano fondamentali per un disabile. La prima grande svolta per me è stata quella di usare il bastone. Certo, non nascondo che l’inizio non è mai facile quando subisci un cambiamento, ma l’inizio diventa normalità quando tu accetti te stessa, e l’uso di un bastone o cane guida sono strumenti fondamentali che ti permettono di avere l’autonomia di cui tanto si parla ma spesso non si ha ben chiaro il significato.
Definirei la mia vita come una grande scalata, e ogni gradino che faccio è un ostacolo superato, un tempo affrontato e attimo vissuto.

 Come ti sei avvicinata all’atletica? Perché hai scelto proprio questo sport?

Lo sport per me è una rinascita. Ho sempre amato fare qualcosa, da piccola la danza, l’atletica, ginnastica ecc. qualsiasi cosa che potesse essere dinamico. Il mio trascorso in Albania mi ha in un certo senso precluso la pratica di queste attività. Non nascondo che anche i miei genitori, cresciuti in una povera cultura, non hanno potuto spingermi oltre a quelli che erano i segnali culturali.
Qui in Italia ho avuto il mio primo incontro con la danza come hobby: all’età di 20 anni mi sono avvicinata alle danze caraibiche, poi nel 2005 con l’ICM ho conosciuto il Baseball per cechi (AIBXC) che pratico da 10 anni nella squadra Thunders five di Milano: abbiamo vinto 6 scudetti e quattro Coppe Italia. Nel 2009 ho conosciuto le danze sportive, e da allora ballo con il mio ballerino Salvatore Vitacca danze standard all’International Dance Team Pilon. Nel 2012 ho iniziato con l’atletica leggera spinta dal Presidente della mia prima società, e mi sono subito innamorata della velocità e del salto in lungo: l’avventura continua ancora adesso nel Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre.
Attualmente corro con Elisa Bettini atleta guida e il mio Coach è una allenatrice inglese Haley Ginn. Ho fatto questa scelta perché mi piace il loro modo di fare e la concezione che loro hanno dello sport paralimpico e normodotati senza differenze. Condivido le metodologie anglo – americane di allenamento.

 dedaj e versace

Hai notato delle differenze fra l’Italia e l’Albania non solo a livello di strutture ma soprattutto su come viene accolto in disabile nella società?

Certo che c’erano molte differenze, per lo meno negli anni in cui ho vissuto io in Albania; purtroppo non venivano valorizzate le capacità individuali di ognuno ma la società tendeva a emarginare le persone disabili; senza una cultura aperta alle diversità  era impossibile aspettarsi di trovare strutture e strumenti adatti al disabile. Spero vivamente che a oggi la situazione sia migliorata.

 Le maggiori difficoltà che hai trovato quando hai deciso di approcciarti a questo sport?

Nessuno è nato imparato, quindi come tutte le persone che si avvicinano all’atletica per la prima volta ho dovuto imparare le tecniche di base della corsa e dei salti; per me è ovviamente molto importante il linguaggio che viene utilizzato per spiegare un nuovo esercizio: infatti tanti esercizi dell’atletica sono immediati se li vedi, ma impararli basandosi soltanto su una spiegazione visiva e “tattile” diventa un approccio totalmente diverso.

 Lo sport può essere davvero rinascita e riscatto, cosa ti ha dato in più l’atletica?

Rinascita e riscatto sicuramente: per un disabile è fondamentale praticare uno sport perché ti aiuta a migliorare la percezione del corpo nello spazio, ti rende più aperto e comunicativo con il mondo, ti infonde fiducia nelle tue capacità. L’atletica mi ha fatto capire che l’avversario più temibile sono io stessa e che in ogni gara devo cercare di superare i miei limiti.

 Il momento più bello che ricordi?

Quando ho conosciuto il mio amore e non sapevo ancora che lo era… Ho apprezzato con il tempo questo incontro e i frutti hanno dato il loro risultato! Convivo con il mio ragazzo Emanuele Di Marino da tre anni e insieme seguiamo il sogno verso Rio. Entrambi siamo atleti paralimpici e facciamo entrambi velocità. Io nella categoria T11 (non vedenti) e lui nella categoria T44 (deficit o amputazione a un solo arto inferiore). Abbiamo creato insieme la pagina LA COPPIA DEI SOGNI dove raccontiamo la nostra story talling del sogno di arrivare insieme alle paralimpiadi, lavorando con dedizione, sacrificio e sostenendoci con il nostro amore.
Il mio motto è:
“Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni” (cit Paulo Coelho)

Cosa deve fare la nostra società per avvicinare il disabile allo Sport?

Tanta promozione, coinvolgimento. Dimostrare che esiste LO SPORT e che tutti possono praticarlo. Avvicinare i bambini anche allo sport paralimpico anche se non si è disabile. Farlo conoscere nelle scuole e introdurre dei temi specifici nelle lezioni di educazione fisica collegata ad altre materie idonee.
Lavorare insieme per uno scambio interculturale e aiutarsi a vicenda. Io credo che tutti noi abbiamo qualche disabilità e il confronto con qualcun altro che possa aiutarci a superare le nostre difficoltà è fondamentale. Quindi l’uguaglianza si trova anche nelle diversità.

 Vuoi lanciare un messaggio ai più giovani?

Certo, rivolgetevi direttamente al disabile per un confronto senza paura, non abbiate timore di fare qualche gaffe, anzi, la curiosità è sintomo di intelligenza e apertura verso il prossimo. Non dobbiamo fare qualcosa per compassione, pietismi o altre forme varie, ma relazionarci in maniera spontanea e senza filtri come lo facciamo normalmente con tutti.
Poi, avvicinatevi allo sport paralimpico, e anche voi praticatelo e vedrete che vi si aprirà un mondo affascinante e senza frontiere.

 Ci racconti della tua giornata tipo? Hai qualche hobby particolare?

La mia giornata tipo attualmente è la seguente: mi alleno tutte le mattine e due pomeriggi a settimana, un solo giorno libero senza allenamento. Lavoro in Allianz Global Assistance che oltretutto mi supporta e mi rende orgogliosa di essere ambasador di un’azienda molto sensibile su questi temi e che investe anche nello sport paralimpico. In questo anno olimpico per me è molto importante avere il loro supporto perché per me significa davvero avere la possibilità di fare l’atleta professionista a tempo pieno.
I miei hobby sono il ballo che mi rilassa e mi fa sentire libera, coccolare i nostri gatti e dedicarmi alla cucina quando posso.

 Un’ultima domanda: cosa ne pensi di questa Italia calcio dipendente?

Ah ah, credo che l’Italia sia schiava del calcio e che degli altri sport si sappia poco e niente. Non c’è molta voglia di conoscere altri sport. Si investe tanto nel calcio e infatti a loro non manca nulla; se invece si osservano altri sport, parlo di quelli che conosco da vicino, ci si accorge che anche le strutture sono pessime e che di conseguenza manca proprio il sistema per far funzionare correttamente le cose.
Lo sport deve anche essere un momento di aggregazione, di socializzazione e di divertimento. Nel calcio purtroppo la tifoseria a volte diventa violenta, crudele ed esce dagli schemi dei valori e dell’etica sportiva.
Prendiamo esempio dagli Stati Uniti: in una partita di baseball il pubblico si diverte, non va solo a vedere la partita ma ha anche un contatto con i giocatori, mangiano e chiacchierano insieme a loro ecc. davvero Enjoy sport!

Giusy Genovese