Mamma, surfista, e giornalista sportiva, tra le più amate di Sky Sport prima e di Amazon Prime Video ora. Alessia Tarquinio è uno dei volti più noti del giornalismo sportivo in Italia, una donna competente, anticonformista, umile e simpatica, che ha saputo sfidare le onde e proporre uno stile di racconto meno rigido e più pop.

Con lei abbiamo analizzato alcuni aspetti del calcio femminile e maschile, ma abbiamo anche parlato della sua carriera, scavato tra i ricordi di Firenze e del Sudafrica e ricordato i due grandi insegnamenti di suo padre. 

La Serie A femminile è iniziata in modo un po’ differente. La Juve è quarta, Inter, Roma e Fiorentina invece per ora si contendono il primato. Cosa pensi di questo inizio di stagione?

Quando ci sono cambiamenti mi fa sempre piacere perché così diventa un po’ più frizzante. È un po’ quello che è successo anche nel calcio maschile, con il dominio della Juventus per tanti anni. Iniziavi la stagione e già alla terza giornata capivi come andava a finire. Quindi mi fa piacere che, almeno in questo, il calcio femminile stia somigliando di più a quello maschile perché vuol dire che sta crescendo. 

La Juve sapevamo già che era una squadra forte, che è stata creata per vincere. Alla fine, anche le altre si stanno adeguando. Sono contenta per l’Inter, la Roma e non posso non citare la Fiorentina. 

Le giallorosse hanno fatto una grande squadra, stanno giocando davvero bene e la cosa che mi piace è che non mollano, ci credono di più, hanno fatto quel salto di crescita in più. Somigliano a Elisa (Bartoli, ndr), il loro capitano. Sull’Inter, Guarino ha bisogno di tempo. È una donna dai progetti: tu le dai in mano un progetto e lei lo sviluppa. Non si poteva pretendere che vincesse l’anno scorso. È una persona che conosce bene il calcio e spero le diano tempo. Secondo me, in generale, questo inizio di stagione ci dice che il calcio femminile è cresciuto. 

Il passaggio al professionismo è stata una grande rivoluzione. L’italiano medio, però, tutt’oggi considera il calcio uno sport maschile. Quanta strada ancora c’è da fare?

Il professionismo non è stato un punto d’arrivo. Mi ha un po’ irritata il parlarne nel modo sbagliato. È stato importante per le atlete da un punto di vista sociale e lavorativo (ora hanno la malattia, la maternità, il TFR…). Ma questa è solo una parte. 

Il diventare professioniste, anche sul campo, richiede particolare attenzione e un particolare lavoro. Bisogna metterle nelle condizioni di esserlo. Il professionismo parte dalla base: noi dobbiamo dare a queste ragazze la possibilità di essere allenate da signori allenatori, uomini o donne che siano, che conoscano il calcio femminile e che abbiano uno staff pronto e preparato per allenarle, per curarle e per gestirle. Stiamo facendo un buon lavoro, ma c’è ancora tanto da fare. 

Il professionismo poi è arrivato nel periodo degli Europei, un momento in cui la nazionale ha avuto difficoltà. Questo di certo non ha aiutato perché non ci siamo comportate come una squadra di professioniste. Ci deve essere una crescita dei risultati se no non andiamo da nessuna parte. È arrivato il momento di dimostrare sul campo che il calcio femminile è un calcio giocato bene. 

Le azzurre si sono qualificate ai Mondiali. Come ci arriva l’Italia? Pensi che questo torneo possa segnare una svolta e possa far crescere l’interesse?

In Francia abbiamo fatto un po’ le outsider e spero che in Australia si faccia altrettanto bene. È una nazionale che sta inserendo delle giovani e abbiamo dei grandi talenti, lo abbiamo visto anche in queste prime giornate di campionato. Il Mondiale comunque, sì, credo attiri sempre l’attenzione. Spero sempre nell’effetto manifestazione.

Lo spazio che l’informazione italiana dedica al calcio femminile, nonostante  i traguardi raggiunti, è davvero poco. Perché? Forse per il poco interesse?

Secondo me l’interesse si crea. I giornalisti hanno un compito importante, che è quello di informare e di far conoscere gli eventi e le storie alle persone. Per incuriosire o far appassionare la gente, innanzitutto, bisogna provarci. Non mi sono mai piaciuti i paragoni ma in Spagna, ad esempio, Marca ha il coraggio e la forza di mettere in prima pagina il calcio femminile. La Spagna ci dà una lezione. Noi non abbiamo questo coraggio. 

Concediamo sempre poco spazio, parliamo delle calciatrici come se fossero sorelle o cugine, come se il calcio femminile avesse la dimensione dell’hobby. Ma perché? Sono atlete, professioniste e bisogna trattarle da tali. A volte mi sembra che per paura di perdere copie, abbonati o click, ci si autocensura. 

È una questione di educazione, mancano l’educazione e la cultura sportiva ed è un peccato perché se si trattano gli argomenti femminili in un determinato modo si fa del bene alla società. Lo sport è un veicolo, un mezzo potentissimo. 

Serie A maschile. Come vedi questa stagione? La rivelazione di queste prime giornate?

Come rivelazione, non posso non dire il Napoli. Gioca davvero bene, è una di quelle squadre che ti piace veder giocare, così come la Roma. Sono molto contenta anche per l’Udinese, perché è una squadra che ha sempre fatto bene in passato e sono contenta del lavoro delle “piccole”. Sicuramente hanno meno pressione, hanno meno aspettative, ma hanno tanta ambizione. 

Mi ha stupito invece l’involuzione della Juventus, questa difficoltà di mettere in pratica quello che sulla carta dovresti fare. Non ho capito cosa sia successo e probabilmente non l’hanno capito neanche loro. L’ho vista male da un punto di vista fisico. 

Il Mondiale di novembre/dicembre e lo stop di due mesi potrà riservare delle sorprese in campionato?

È una cosa a cui allenatori, giocatori e preparatori non sono abituati. Il post Mondiale è sempre un’incognita perché i calciatori tornano sfibrati. Inoltre, è un torneo che si gioca al caldo e questo farà la differenza. Non è il mio mestiere, ma credo che dopo il Qatar il problema più importante saranno gli infortuni. Non ci saranno delle settimane dedicate a chi torna dalla competizione, non ci sarà tempo per fargli fare un certo tipo di lavoro. I più fortunati probabilmente saranno quelli che rimangono, che faranno la solita preparazione. È una bella incognita.

Le squadre italiane in Europa, negli ultimi anni, soffrono. Perché? Cosa manca ai club di Serie A?

In questo momento mi turba il caso del Milan, in campionato non va male, ma è anche vero che il campionato è tutta un’altra storia e giocare contro le squadre inglesi invece non è semplice perché hanno un’intensità e un’aggressività alle quali noi non siamo abituati. E qui si potrebbero aprire varie parentesi sulla Serie A, sul fatto che non sia così competitiva.

Ma se si guardano alcune partite di Premier, di Liga o Bundesliga, sono completamente diverse. Sono filosofie di gioco e di allenamento diverse e questo vuol dire tanto anche sul nostro campionato. Mi dispiace per il Milan, che si dovrà giocare la qualificazione. All’Inter basta poco. Per la Juve, viste le premesse in campionato, non potevamo aspettarci di più. Sono felice per il Napoli. 

Il finto coming out di Casillas ha conquistato le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo in pochi secondi. Perché nel calcio maschile l’omosessualità è ancora un tabù e fa così tanto clamore?

Perché i calciatori sono degli eroi, sono perfetti e, non so per quale idea stramba, nella perfezione non rientra l’omosessualità. Il calciatore è l’idolo, il punto di riferimento e deve rispettare dei canoni: deve essere macho. I più, secondo me, non fanno coming out per paura delle critiche e degli insulti. A noi può sembrare semplice, ma loro poi devono convivere con questo ogni giorno. Devono andare agli allenamenti, allo stadio, incontrare la gente, e non tutti hanno la forza o sono disposti a sopportarlo.

Per alcuni magari non si tratta neanche solo di paura, ma semplicemente di vivere senza dover per forza parlare della propria sessualità. Se un calciatore però avesse la forza di dichiararsi aiuterebbe sicuramente molti ragazzi che si sentono più deboli a parlarne e ad affrontare l’omosessualità. Aspetto ancora questo momento e spero che, se mai arriverà, non venga fatto con un tweet ma in modo più serio. 

Il giornalismo sportivo è sempre stato un ambito prettamente maschile e maschilista. Qualcosa si è evoluto in questi anni?

Adesso sono molte le donne nelle redazioni, molte di più rispetto a quando ho iniziato io. Come quantità siamo migliorati, come qualità mi aspettavo qualcosa di più. Ci sono colleghe molto brave, ma ce ne sono troppe che passano dal giornalismo sportivo non essendo giornaliste, non avendo idea di che lavoro sia e non avendo probabilmente neanche la voglia di diventare giornaliste. 

Mi innervosisco quando in una redazione si preferisce una figura del genere per svolgere il lavoro giornalistico, togliendo la possibilità a una collega o un collega di fare quel mestiere. Siamo ancora all’idea della donna nello sport, in televisione, che deve attirare gli uomini. La tendenza alla volgarità e all’esagerazione poi non la capisco, non capisco l’esigenza. Mi dà fastidio anche che alle donne, spesso, non viene data la stessa credibilità che si dà agli uomini. 

L’insegnamento più grande che hai ricevuto nella tua carriera?

Da mio padre, quello di rimanere umile. Che non equivale a non avere ambizione. Significa fare tutto, rimanendo se stessi. La prima volta che sono andata in televisione, sono tornata a casa e mio padre mi ha detto: “Se ti monti la testa, ti prendo a calci nel culo”. E devo dire che il complimento più bello che mi sia mai stato fatto è che sono rimasta sempre uguale. 

Poi c’è un altro insegnamento, che arriva sempre da lui, grande appassionato di sport e grande lettore di sport. Mi ha sempre detto che devo raccontare il calcio come se lo raccontassi in un bar. Certo, con gli strumenti che ho io, ma in modo che arrivi a tutti. Una volta in onda ho detto “un gesto apotropaico”, sia il mio direttore di allora che mio padre mi hanno scritto e mi hanno detto: “Ma chi vuoi che ti abbia capito?”. Il suo insegnamento mi ha aiutata a essere più pop nel racconto.   

Qual è il momento della tua carriera al quale sei più affezionata? 

Sicuramente il periodo di Firenze, perché ho conosciuto una città magnifica, ma soprattutto perché ho conosciuto quello che è diventato mio marito e mi ha dato la possibilità di avere un figlio. È stata una bella esperienza perché mi sono vissuta la Fiorentina in Champions League, al di là del bacio di Prandelli (ride, ndr). È stato un bel periodo lavorativo e sentimentale. 

Un altro periodo è quello del Mondiale in Sudafrica, per il Sudafrica. Facevo le nazionali straniere quindi mi sono messa alla prova su quello. Ma mi sono vissuta proprio il Sudafrica. Io ero a Johannesburg, sono andata in giro a Soweto (la più grande township del Paese, ndr) e ho fatto un documentario, girando in bicicletta. Lì ti rendi conto di cos’è la vita vera. Viaggiare tanto e avere a che fare con culture diverse, Paesi diversi e situazioni di vita diverse mi ha aiutata tanto.

 

Alessandra Cangialosi