Nel mio primissimo articolo su Dušan Vlahovic ricorreva questa frase:

Quel ragazzo che lui stesso ama proteggere con le sue stesse, larghissime spalle, e che viene fuori solo quando esulta saltando come un grillo, quando sorride o quando corre incontro a un bambino.

Credo fosse evidente agli occhi di tutti che un giovane di poco più di vent’anni con quell’atteggiamento così duro, coriaceo, poco incline a ridere e a sorridere indossasse in realtà un’armatura, costruita a regola d’arte per proteggersi.

Vlahovic è un ragazzo intelligente.

Non ho dubbi abbia capito presto che nel mondo del calcio – che è solo una proiezione della vita – certe debolezze è meglio cercare di celarle il più possibile.

Costruirsi una buona difesa, sempre e comunque.

A dispetto della sua durezza, della sua apparente inflessibilità, Dušan è stato quello emotivamente più vicino a Paulo Dybala la scorsa stagione, mostrando una sensibilità genuina, rara, acuta.

Mi ha stupito quel suo accompagnarlo, prendendolo delicatamente per mano, nel lungo e doloroso processo di separazione della Joya da Torino, fino agli ultimissimi momenti condivisi insieme nello Stadium completamente vuoto.

Un animo squisitamente sensibile quello del serbo, volutamente celato.

Perché a Dušan, in fondo, l’immagine da duro, figlio della coriacea terra serba, piace.

Così come gli piace ricercare spasmoticamente di essere sempre all’altezza della situazione, rispondere sempre “Presente” all’appello.

A volte, caro Vlahovic, non si può.

A volte nella vita, che tu sia un calciatore o qualsiasi altra cosa, la perfezione diventa una lontana utopia. Anzi: anche la cosa più facile, più semplice diventa un ostacolo insormontabile.

Bisogna avere tanta pazienza, quella che – onestamente – ti manca tanto.

Nella corazza del gigante serbo in questo momento ben si leggono le crepe. Mentre lui si nasconde il viso tra le mani, perché non vuole che gli altri ci sbircino, in quelle crepe.

Un po’ lo capisco.

La tifoseria può essere una delizia ma anche una croce.

Soprattutto, la tifoseria difficilmente guarda l’uomo dietro la casacca.

A tal proposito mi sono imbattuta in questo tweet:

L’immagine di Stanković che abbraccia il giovane attaccante, quasi a volerlo proteggere in un momento di estrema vulnerabilità (a volersi sostituire a quell’armatura in questo momento un po’ logora), mi dà l’idea di quello che in questo momento dovrebbe fare la Juventus, con Vlahovic.

Perché – e leggendo alcuni commenti sembra chiaro –  non tutti, ma tanti, invece di comprendere, sembrano preferire affondare la lama in quelle crepe, per ferire invece che supportare.

Perché nel calcio – nel mondo – moderno la debolezza, che sia un giorno o un’ora, è una colpa da cui redimersi.

E non meravigliamoci poi se i più giovani si nascondono dietro le più imponenti armature.

La Juventus, le sue figure più adulte, l’allenatore in primis, dovrebbero andare alle radici di questo malessere e provare quanto meno a risolverlo (con la collaborazione del diretto interessato, naturalmente).

Magari provando a evitare che si arrivi a queste manifestazioni pubbliche che poi, puntualmente vengono mistificate e strumentalizzate, per tacciare di “mancanza di carattere”.

Capitano appunto al momento giusto le freschissime parole di Cesare Prandelli, proprio su Dušan:

I rigori si possono sbagliare, ma la reazione che ha avuto nei quindici minuti successivi è stata da grande giocatore. Ha tentato di fare gol in tutti i modi, è stato anche sfortunato. Io penso sia un giocatore molto forte. Il problema è di squadra. 

Eh già, la squadra. Quell’entità che sta mancando così tanto alla Juventus da molto a questa parte, e non basta citare i guai giudiziari a giustificazione, perché – a maggior ragione – la squadra nei momenti difficili dovrebbe tutelare e proteggere.

A Dušan in questo momento sta mancando non solo il gol ( che molto fa, diciamolo pure). Sta mancando un supporto, una spalla, qualcuno che aspetta mentre tu bruci dall’impazienza, qualcuno che – come ha saputo fare lui così bene, l’anno scorso – si sieda con te sul prato, aspettando tempi e momenti migliori.

Un supporto, che, forse, è destinato a trovare altrove. 

Daniela Russo