Quando è successo l’episodio di Christian Eriksen, non stavo seguendo la partita.

Ero fuori casa, ma siccome sono concentratissima su questi campionati Europei, ogni tanto faccio un rapido giro su Twitter.

Ho appreso ciò che accadeva dagli innumerevoli post che si susseguivano e sono andata a chiedere informazioni alle mie colleghe di redazione.

Sono contenta, lo dico onestamente, di non aver assistito alla scena del mancamento.

Nella mia vita non ho mai imparato a rapportarmi con il dolore altrui e soprattutto quando si parla del cuore e delle sue patologie sono francamente terrorizzata. Senza alcun motivo razionale.

Mi hanno sempre rimproverato mancanza di freddezza e pertanto ho trovato assolutamente perfetto – nella sua normale necessità, che pur facciamo passare per eroismo – il comportamento di Kiaer e di tutta la compagine danese.

Non appartengo, pertanto, a quella categoria che vuole assistere a tutti i costi alla manifestazione dei particolari, che va a caccia della foto o del filmato. Anzi.

Ho sentito sollevare polemiche infinite a proposito della foto, che ha fatto poi il giro del web fino a arrivare sulle copertine della carta stampata.

Sono fermamente convinta che, chiunque vi fosse a bordo campo, la barriera formata dai giocatori della Danimarca avesse già da sé stabilito dei limiti da non varcare. Per la delicatezza del momento, ma anche per la portata  che le immagini potevano assumere, che ne so, agli occhi di un bambino.

Dall’altra parte mi rendo conto che il mondo intero – quello intorno a quella partita, almeno – ha vissuto sinceramente un collasso emotivo.

Lo testimonio in prima persona, data l’angoscia che ho provato: pur senza vedere nulla.

La foto di Christian cosciente, seppur intubato, ha concesso un sospiro di sollievo corale perché in quel momento tutti hanno compreso che il giocatore fosse quanto meno vivo.

È giusto e sacrosanto parlare di privacy: ma un fatto accaduto a cielo aperto, davanti a tantissimi occhi, ha già coinvolto tutti, con o senza fotografie.

A un giocatore che in fondo, proprio perché è tale, appartiene anche un po’ al collettivo.

Se fosse  seguito il peggio, come avrebbero protetto il tutto dagli sguardi dei presenti, sul posto o in TV?

Qualcuno ha scritto che il fotografo che ha assistito allo schianto di Senna non ha mai divulgato gli scatti fatti  ad Ayrton, già incosciente. Perfetto.

In questo caso specifico non è stata divulgata un’immagine di morte, bensì di vita.

Mi rendo conto che la mia posizione potrebbe essere non condivisa.

Il confine tra ciò che è etico oppure no, in questi casi, è molto labile.

Questa è solo un’ opinione. Prendetela per quello che è.

Daniela Russo