Nella serata del 29 dicembre 2022, tutto il mondo si è prostrato, quasi attonito alla notizia della morte del più grande tra i grandi, l’eterno Edson Arantes do Nacimiento (o, come era conosciuto da tutti), semplicemente: Pelé. 

Bastava dire questo semplice soprannome e tutti, ogni bambino, adulto, anziano in ogni parte del mondo sapeva chi fosse, senza chiedersi, qual era il suo vero nome.

Per tutti, sarà e resterà sempre Pelé, il re del calcio, che ha anticipato tutti, unico nella sua unicità.

Un calciatore che ha sempre rappresentato tanto, non soltanto per il suo Brazil, ma anche, e soprattutto, per tutti coloro che amano il calcio. 

Per lui hanno parlato le sue giocate, le registrazioni dei suoi goal, incomparabili, che stabiliscono il record in carriera, riconosciuto dalla FIFA, di 1281 goal in 1383 partite giocate.

Senza contare i titoli: dieci volte il campionato Paulista, quattro il Torneo Rio-San Paolo, sei il Campeonato Brasileiro Série A e cinque Taça Brasil, oltre a due edizioni della Copa Libertadores, due Coppa Intercontinentale, senza dimenticare il Campionato NASL. 

O Rei, O Rei de futbol, Perla nera, o semplicemente, il calciatore del secolo secondo la FIFA, o il Pallone d’oro del secolo. 

Una vita, fatta di titoli, di riconoscimenti, nominato patrimonio storico-sportivo dell’umanità, dal luglio del 2011.

Quasi un secolo di notorietà, tanto per un bambino che nel 1950, decise di prendere sulle sue quasi scheletriche spalle, il destino di una nazione.

La storia, quella di Edson, che nacque il 23 ottobre del 1940, a Três Corações, figlio dell’ex calciatore “Dondinho” e di Maria Celeste Arantes. 

Il padre nel 1945 gioca nel Bauru, squadra dilettantistica della città omonima, dove il piccolo Edson, al seguito della famiglia si trasferisce.

È qui che nasce la leggenda Pelé, che lo accompagnerà per tutto il corso della sua vita.

Tutto nasce da uno sbaglio di pronuncia. Il portiere della squadra, è un certo Bilé, ma il piccolo Edson, non riuscendo a pronunciare bene la B, lo inciterà da bordo-campo, con un semplice: Pilé. I compagni di scuola, divertiti da quella situazione, incominciarono a chiamarlo: Pelé. 

“Mi chiamavano Pelè e io non ne capivo il motivo. Non capivo se mi prendessero in giro o volessero dire qualcos’altro. Non lo so, però mi dava fastidio. Solo dopo, quando sono diventato ricco e famoso, ho cominciato ad accettarlo…”. 

Rispondeva così quando gli chiedevano l’origine di quel soprannome, ormai universale, scritto sulle enciclopedie mondiali.

Ma da piccolo, pensava che fosse una presa in giro, mentre lui, piccolo e gracile, è al fianco di mamma Celeste, mentre quest’ultima lavorava come lavandaia, in quel Brasile poverissimo.

I soldi per comprare un pallone non c’erano, e il piccolo Dico, così chiamato dalla famiglia, fa da lustrascarpe, aiuta la mamma, ma il calcio, quello sport che lo riempie di gioia, non lo lascia. A lui bastava anche una palla rattoppata con stracci, o anche un mango, per palleggiare, per sentirsi libero. 

In quegli anni, il Brasile, è come stordito, mentre Dico, continua a sognare di giocare, di essere come suo padre, ritiratosi dal calcio, dopo un pesante infortunio. È il 1950, e il Brasile ospita il Campionato del mondo.

Dopo un’incredibile volata in finale, i verdeoro incontrano i campioni dell’Uruguay. L’Intera popolazione è trepidante, e davanti a quei piccoli televisori posti nei bar delle favelas di Bauru c’è anche la famiglia di Dico.

Suo padre, Dondinho guarda con emozione quella finale, che per il Brasile, povero e stremato, può sognare un riscatto. Ma non va così e la desolazione si abbatte sul Brasile. 

“Papà, non piangere. Un giorno vincerò io il Mondiale…” 

E Dondinho, lo guarda, gli sorride malinconico e Dico, o Pelé, manterrà quella promessa: per lui, per suo padre e per il Brasile. 

Incomincia a puntare su giocare nel Bauru, venendo notato a soli 15 anni, da un ex calciatore della nazionale, Waldemar de Brito, che lo incita a fare un provino per il Santos. De Brito vede in lui un’opportunità: 

Diventerà il miglior calciatore del mondo…!” 

E ha ragione.

Il Santos accetta e debutta, dopo un anno di giovanili, in prima squadra il 7 settembre 1956, a nemmeno 17 anni.

Rimarrà lì per ben 19 anni, fino al 1974, dopo aver vinto tutto, e dopo essere diventato il simbolo della squadra, che soprattutto oggi lo ricorda. Emozionante è la scelta di dedicargli il simbolo della corona, il suo simbolo, cucino sul petto della camiseta bianconera. 

Sebbene un iniziale ritiro viene ingaggiato dopo un anno, dai New York Cosmos, per promuovere il calcio nel paese più comunemente legato al football americano. 

L’ultima e storica partita è quella del 1° ottobre 1977, nell’amichevole tra i Cosmos e il Santos, le sue due squadre.

Un percorso tutto americano, mai uscito fuori dai confini, sebbene di richieste dall’Europa vi fossero. Principalmente fu l’Inter a volere O Rei, ma anche la Juventus e il Milan.

Come dargli torto: avere Pelé in squadra era come partire dal fischio d’inizio con un immenso vantaggio. 

Ma lui, come un degno soldato, non ha mai voltato le spalle al suo popolo, senza mai dimenticare la promessa fatta anni prima al padre. 

Ritorniamo al 1957, in quel Brasile, dove i brasiliani di colore non vengono visti di buon’occhio. Frutto è di una vecchia superstizione, dato il colore della pelle del portiere della disfatta del 1950, Barbosa. 

Un paese dove la nuova borghesia brasiliana, rimane sorpresa dalla convocazione del giovane Edson, detto Pelé, per quello veniva definito: 1958, il Mondiale del riscatto. 

Il mondiale svedese inizia, ma a discapito del suo talento, il diciassettenne Pelé non viene inserito nella prima partita, persa dal Brasile non viene inserito. Nella partita successiva, contro l’Unione Sovietica, viene chiamato per entrare in campo. Il resto è storia. 

Il Brasile vince il campionato del mondo e vola sulle vette dei campioni, con entusiasmo e grinta col 5-2, grazie alla tripletta segnata da Pelé.  

Pelé diventa O Rei, la leggenda del calcio, il mito che ancora oggi ci appassiona e ci tiene incollati alle vecchie diapositive, unico modo di ammirare le sue prodezze, il numero 10.

Una piccola curiosità.
Quando nel 1958, venne depositata la lista dei calciatori alla FIFA, non vi erano i numeri dei giocatori. Fu allora, che dando i numeri delle maglie, gli fu assegnata la 10. Numero che fino ad allora, era un semplice numero come il 5 o il 2.

Dopo di Pelé, indossare la dieci, divenne indossare la 10. 

Perché Pelé è così, vincitore di 3 Campionati del mondo: 1958, 1962 e 1970.

Ha accumunato tutti, sebbene sia sempre aperta la diatriba: “Pelé o Maradona?” 

Una domanda a cui, pur volendo, non si può trovare una risposta, soprattutto perché il calcio delle loro diverse generazioni era diverso. Quello di Pelé era un calcio nuovo, rivoluzionario, anticipatorio di quello moderno. Dove Maradona ha mostrato, Pelé l’ha inventato, ridando lustro al calcio di cuore, di strada, di meraviglia, di quella “ginga” tutta brasiliana. 

Sono più conosciuto di Gesù”, arrivò a dire, da fervente devoto, ironizzato sulla sua notorietà universale, dovuta anche al suo essere: poliedrico. 

Testimonial, cantante, attore. Celebre è la sua partecipazione nel film: “Fuga per la vittoria”, con la sua rovesciato nella partita finale. O ancora nel film biografico, Pelé del 2016, dove eccolo seduto al bar dell’albergo del Brasile, durante il mondiale 1958, mentre il giovane “Pelé” gli rovescia la zuccheriera. 

Un uomo, prima di essere un calciatore, che con suo sorriso bonario, e la sua vera allegra ha convinto tutti. Tutti l’hanno voluto ricordare, squadre, istituzioni, giocatori, tifosi, affezionati. Sono innumerevoli i messaggi di cordoglio che si susseguono in questi momenti, tutti in commemorazione del grande campione. 

I funerali, che si terranno martedì 3 gennaio 2023 a Santos, seguiranno la veglia funebre del lunedì allo stadio Urbano Caldeira, lo stadio del Santos, prima di riposare nel cimitero più verticale del mondo: Memoriale Necropole Ecumenica. 

E per concludere, grazie Pelé, per la magia, per il talento, per i tuoi sorrisi, la tua sincerità e quella voglia di giocare e sentirti libero nel momento in cui entravi in campo.  

“Spero che lassù Dio mi accolga bene come avete fatto quaggiù, dove il calcio mi ha aperto tutte le porte.” 

Onore al Rei 

 

Rosaria Picale