Cosa sarebbe una squadra di calcio senza i propri tifosi?

Penso alle note di “Roma, Roma, Roma” cantata all’Olimpico in settantamila. O a “You’ll never walk alone”. Alla desolazione provata durante il periodo Covid, quando le squadre scendevano in campo in teatri deserti.

Penso ai tifosi e l’immagine è quella di un cuore pulsante, che batte sotto la maglia che si ama. Ai chilometri fatti in treno, in auto, pioggia o caldo soffocante, non importa. Tutto per lei.

Ma cosa sono diventati i tifosi per la Juventus negli ultimi anni?

Clienti. Scomodi quando alzano troppo la voce: meglio tenerli “zitti e buoni”, se vogliono accomodarsi nell’algido teatro di Torino.

Clienti che a mano a mano si sono visti sottrarre la propria passione goccia dopo goccia da una gruppo dirigenziale che vede la passione come un ostacolo.

Clienti a cui bisogna fornire una “tavola delle leggi” da rispettare, se veramente vogliono fregiarsi del titolo di tifosi.

Perché faccio questa premessa?

Perché ieri, quando è arrivata la prima delle tante sentenze che coinvolgeranno la Juventus da qui a un paio di mesi, il mio primo pensiero è andato ai tifosi.

Di cui anche io faccio parte.

Quegli stessi che furono travolti dall’uragano Calciopoli ma che sono rimasti sempre – e sottolineo SEMPRE – al fianco della squadra difendendola in ogni dove, con ogni mezzo, con ogni parola possibili.

Perché i tifosi hanno creduto all’ingiustizia del sistema e lo hanno a modo loro voluto combattere.

Ma sapete, vi dico ciò perché all’epoca io stessa sono rimasta perplessa nel vedere che la Juventus, che rappresentava la vittima di quello stesso sistema, avesse deliberatamente scelto di non difendersi.

Perché, insomma: quale innocente aspetta impassibile la pena senza battere ciglio?

È stato allora che ho compreso che, se non ti difendi, allora, per quanto esagerata possa essere un’accusa, vuol dire che hai qualcosa da nascondere.

Intanto in questi anni che si sono susseguiti a Calciopoli il tifoso juventino non ha mai smesso di difendere la Juventus, gratuitamente e volentieri, malgrado l’infausto compito gli fosse stato scaricato dalla  Juve manco si stesse giocando una partita di palla avvelenata.

Nel mentre,  dalle tante accuse che sono continuate a piovere sulla società, sul Presidente, sulla dirigenza nessuno, nelle sedi opportune, si è difeso. Mai un comunicato, una querela, una conferenza chiarificatrice. Nulla di nulla.

Soltanto i tifosi hanno continuato, imperterriti.

Fino alla vigilia dell’imminente terremoto, già con le dimissioni, forzate e improvvise, della dirigenza Agnelli – Nedved – Arrivabene, il cui operato discutibile appariva sempre più chiaro agli occhi dello stesso popolo bianconero (o quanto meno a una parte).

Oggi, dopo la sentenza che prevede la penalizzazione immediata di 15 punti per lo “scandalo plusvalenze”, i tifosi stanno cambiando atteggiamento.

Che la giustizia sportiva in Italia assuma sempre più i contorni di una questione politica, in cui di giusto c’è poco o nulla, credo sia chiaro a tutti. Questa inchiesta sulle plusvalenze, in cui tutti sono coinvolti ma solo uno viene penalizzato, è solo l’ultima delle evidenze.

Non me ne meraviglio.

Tuttavia a risvegliare il sentimento popolare, che da sempre vuole la testa del più forte, è il modus operandi stesso della Juventus, soprattutto negli ultimi sei anni. Un modus operandi che si è nutrito di errori plateali che, invece di essere riconosciuti e corretti, sono stati camuffati e nascosti come la polvere sotto il tappeto.

A questo punto allora mi sento di dire una cosa sola.

Non venite a chiedere a noi tifosi di difendere la Juventus.

La Juventus, in quanto società, in quanto proprietà, questa volta abbia il coraggio, la saggezza, l’onestà di procedere a difendersi non con slogan superflui o disegnini su Instagram. Lo faccia con carattere e con forza, se si sente vittima di un ingiustizia.

La smetta di giocare con i propri tifosi al gatto e al topo, lasciandoli ora alle prese con questo fardello insostenibile quando per mesi – per anni – non ha permesso loro nemmeno di cantare allo stadio.

I tifosi vogliono solo vedere i loro ragazzi scendere in campo, sostenerli, elogiarli. Gioire con loro e se necessario soffrire, ma solo per quanto accade SUL campo.

Tutto quello che esula spesso va fuori dallo loro comprensione e li lascia amareggiati, scoraggiati. Li lascia qui a chiedersi perché “sempre a noi”, perché il sentimento avverso è forte e ne sono consapevoli, ma questa volta sono consapevoli anche del fatto che qualcosa (più di qualcosa) è stato mal gestito.

Li lascia sconcertati dall’incapacità, malgrado la gravità degli eventi precedenti, di imparare la lezione.

Oggi, tuttavia,  non è più tempo di giocare a palla avvelenata, cara Juventus.

Io dal mio canto continuerò come sempre a seguire i ragazzi, come ho sempre fatto anche sui campi di serie B, il sabato pomeriggio, perché alla passione poco importa dove e con chi si va a giocare.

Ma su un punto voglio essere ben chiara: non si venga a giocare alla guerra mandando solo le trincee al massacro.

Stavolta la guerra – la difesa – va organizzata nella stanza dei bottoni.

Ammesso che la si voglia veramente combattere.

Daniela Russo