“Back home, back to my roots,
Back home, back to my roots…”.

Stai tornando a casa.

Eh sì, lo sai anche tu che è presto, troppo presto, che sarebbe stato meglio fosse accaduto più tardi, quando le ferite erano già cicatrizzate. Almeno un po’.

Perché maggio è così vicino, sembra ieri e tu hai solo voglia di guardare avanti, alle nuove esperienze che ti riserva questa maglia che indossi e a volte ancora fissi senza riconoscerla.

Ma il destino vuole così.

Torni a casa, lo ha dichiarato anche il tuo allenatore, lui ti vede sereno.

Ha detto che hai la faccia da bimbo ma non lo sei: sorridi, perché te lo ripetono tutti da anni.

La verità è che ti manca così tanto essere un bambino, scrollarti di dosso scelte difficili, complicate, da cui dipende il futuro tuo e della tua famiglia.

Le strade che portano allo stadio le conosci a memoria, potresti indicare la via all’autista a occhi chiusi, svolta qui, poi qui, ecco ora ti puoi fermare…

I suoni, i rumori, tutto ti è familiare, c’è qualche bimbo che ancora indossa il tuo Dieci e il cuore sussulta giusto un attimo. Guardi la nuova divisa per ricordare che non è più il tuo numero, non è più la tua pelle.

Ti hanno chiesto di cambiarla e tu lo hai fatto. In silenzio prima, singhiozzando poi.

Ti avvii verso gli spogliatoi della squadra ospite per la prima volta, l’istinto di correre dall’altra parla forte come il richiamo del sangue. Lo ignori.

Il brusio dei tifosi bianconeri ti arriva già alle orecchie. Come ti accoglieranno? Ti fischieranno? Il timore latita in qualche angolo remoto del tuo spirito, ma lo accantoni.

Focus on the match.

Non fai in tempo a mettere piede in campo che già senti il tuo nome acclamato dalla curva.

Ci sono cartelli, striscioni, foto: “Paulo, ci manchi”.

“Anche voi mi mancate”, vorresti rispondere – vorresti urlare – mentre saluti con la mano destra, come è tuo solito, moderato, composto. Come sei sempre stato.

Tranne in quella calda, triste serata di maggio quando le tue difese, già fragili, si sono abbattute rivelando il caleidoscopio delle tue emozioni.

Ma il tuo cuore si scuoia perché in una piccola parte degli spalti ci sono i tuoi nuovi tifosi, quelli che ti stanno osannando, quelli che ti hanno accolto come un Dio a Colosseo Quadrato, quelli a cui non importa nulla da dove vieni e di chi sei stato innamorato negli ultimi 7 anni.

Ti amano incondizionatamente.

E allora ti volti, ti prepari alla gara.

 

La partita si rivela ostica, ma alla fine è una tua mezza rovesciata per Abraham che serve il pareggio. Senza esultare, prendi subito la palla per portarla al centro.

Lo sai che i tuoi avversari – sì, avversari – dopo una rete subita sono più vulnerabili. La vuoi vincere.

Così arriva il fischio finale e i tuoi amici (perché quelli non diventano mai ex) corrono tutti a abbracciarti. Ti lasci andare a ricordi e affetti. Mentre ti avvicini a Dusan ti sfili la maglia, lui ha già fatto lo stesso.

Vi scambiate le casacche e uno sguardo che vale più di cento parole, che racconta di cento partite che avreste voluto giocare uno al fianco dell’altro. Uno sguardo che non ammette addio.

Non riuscite e non volete dirvi addio.

 

Si rientra negli spogliatoi. Un punto guadagnato, una grande prova superata. Per la Roma e per te.

Hai fatto il tuo dovere? Hai fatto tutto quello che potevi.

Il mister non la vede, ma sul tuo viso da bimbo c’è una nuova ruga. Quella di un altro dolore dolce-amaro. Le hai nascoste bene, le tue rughe.

Le hai spostate tutte dentro in una stanza nascosta, lasciando agli altri il bel viso che ti ha sempre contraddistinto.

La prossima volta, ci scommetti, sarà più facile tornare a casa.

 

Daniela Russo