Quanto canonico e distintivo può essere un proverbio per rappresentare la cultura partenopea? Tutto è importante, nulla indispensabile ma, se c’è una cosa di essenziale importanza a Napoli quella cosa si chiama e si chiamerebbe quasi certamente tradizione. I napoletani allegri, solari, dinamici, divertenti, giocosi, vivono principalmente per quattro cose: il mare, il sole, l’arte culinaria e il calcio. Non sovviene particolarmente atipico scoprire che, questi quattro elementi, rappresentano in toto l’attaccamento alla propria terra.

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Motivo per cui appena approdati a Napoli, la prima cosa da fare è sorseggiare “Nu bell cafè” in via Caracciolo, godersi il mare, alzare gli occhi sull’orizzonte e ammirare il cielo delineare le pendici del Vesuvio, una pizza da Sorbillo o da Michele, la sfogliatella e dulcis in fundo andare al San Paolo. Soprattutto andare al San Paolo. Chiunque abbia assaporato l’aria di Napoli, tra una statuina e un presepe di San Gregorio Armeno, ha potuto testare quanto l’amore per la maglia azzurra sia qualcosa di innato e insito, quasi atavico; qualcosa che trascende la metafisica e si erige ad essere legame sacro degno di San Gennaro.
download-7Insomma, che sia di De Laurentiis o di Ferlaino, il Napoli per i partenopei è “Oje vita, oje vita mia, oje core ‘e chistu core, si’ stata ‘o primmo ammore e ‘o primmo e ll’urdemo sarraje pe’ me!
O primmo ammore; o primmo e ll’urdemo. Perché a Napoli nessuno sognerebbe mai che un amore sia il primo bensì l’ultimo e, tra un cliché e un proverbio, si dice pure “Chi vo’ ‘a morte ‘e ll’ate, ‘a soia sta aret a porta”. Ma che vuol dire?
Ci sarebbe da chiederlo ad Arkadiusz Milik anche se, in realtà, il povero Milik, al quale auguriamo la più celere e migliore guarigione (dopo l’intervento andato a buon fine), è soltanto un capro espiatorio.
Per spiegarlo meglio dovremmo fare un rewind e trascendere a periodi un po’ più addietro ed estranei a chi sta crescendo con il mito di Gonzalo Higuain.
Andiamo per gradi, mettiamo in pausa il polacco Milik – che tanto la pausa è d’obbligo – e ripartiamo da Gonzalo.
Correva l’estate 2013, De Laurentiis riesce a portare a Napoli l’argentino che passa dai Blancos agli Azzurri per 37 milioni più bonus (circa 3). Un gioiellino raro, prodigioso, quasi inestimabile, tanto intoccabile da spingere il Presidente azzurro a voler tentare addirittura una causa di risarcimento danni di 100 milioni alla Regione Campania per mancanza di presidi medici adeguati dopo il tuffo goffo e maldestro che ha visto planare il gioiellino dritto su uno scoglio. L’inestimabile valore in crescendo è esploso nella scorsa stagione, una delle più prolifere del numero 9 quando, i Napoletani estasiati da pallonetti, uno contro uno, giochetti, gol da brividi, baci alla maglia e un primo posto che valse il titolo di campioni d’inverno, lo avevano osannato e idolatrato osando – forse troppo -.
higuainUn giorno all’improvviso un fulmine ha squarciato il capoluogo partenopeo e, non fu la liquefazione non avvenuta del sangue di San Gennaro, non fu un improvviso nuvolone più grigio di altri sul Vesuvio, fu Gonzalo che scende dall’Olimpo, si sveste dalle venerazioni e, profano più di un eretico, dissacra “ ‘O sole mio ” e sale su un treno in direzione Vinovo.
Fuggire con il miglior offerente nonché peggior rivale di sempre, un tradimento imperdonabile, una pugnalata alle spalle che dissacra maglia, colori, bandiera o – per dirla tutta – un intero popolo. Una ferita che riesuma e addirittura supera, per gravità, i tradimenti passati e mai archiviati, o quantomeno, mai digeriti e perdonati del tutto.
Da Altafini a Fabio Quagliarella passando per Zoff, Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara, i “ ‘Cori ngrati’ ” per eccellenza possono sospirare. Proprio a ridosso delle visite mediche del Pepita, Altafini stesso dichiarò: “Sono contento, almeno non sarò più io Core ‘ngrato”.  Come dargli torto? Nessun passaggio in bianconero del passato potrebbe mai essere all’altezza del tradimento inflitto dal Pepita proprio perché nessun goleador del passato fu mai idolatrato tanto da essere considerato il messia degno erede di quel Dio del calcio che a Napoli è stato venerato più di San Gennaro e che alla “Giuve” (come la chiamava lui) aveva giurato e dichiarato guerra.
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Un astio mai affievolito nel corso degli anni e che, al contrario, il caso Higuain ha fomentato ulteriormente aizzando critiche, indignazione e qualche – come si direbbe a napoli – esasperata “Seccia”.
All’indomani dell’annuncio del trasferimento di Gonzalo non è mancato chi, tra ironia e scherno appellandosi alla più svariata e infima fantasia si è prodigato ad esprimere le proprie felicitazioni – di dubbia benevolenza – sul prosieguo di carriera lontano da Castel Volturno. Carrellate di post disseminati per i vari social sono piovuti da tutta Italia e nonostante qualcuno benevolmente si sia limitato ad eleggerlo mister Burger King, gli auspici di infortuni più o meno gravi non sono mancati, dimenticando ciò che i loro avi insegnano. Ci verrebbe, dunque, da rammendare: “Nun sputà ‘n cielo, ca ‘n faccia te torna” e destino, o punizione divina, n’ faccia je turnat’ e proprio qualche ora dopo le dichiarazioni di patron De Laurentiis su Higuain, gli encomi e gli elogi a Milik, a mo’ di beffardo scherno, arriva la disarmante notizia dell’infortunio del polacco puntuale come un sortilegio. Oltre il danno anche la beffa; da Torino a Napoli echeggia, dunque, chi nasce ciuccio non muore zebra e allora ciuccio rimembra: “Chi vo’ ‘a morte ‘e ll’ate, ‘a soia sta aret a porta”.
Egle Patanè