La prima volta che ho sentito parlare di “magnifico perdente”, il soggetto era Michael Ballack, centrocampista tedesco tra i migliori della propria generazione, condannato, malgrado la sua classe, a eterni secondi posti.

La figura più simile, cui ho visto associare questa definizione di recente, è stata quella di Luciano Spalletti.

Personalmente, ho subìto tanto il fascino della prima Roma spallettiana, quella che nel 2008 non si laurea Campione d’Italia per un soffio (come dimenticare la doppietta di Ibra a Parma?).

E anche della seconda, tanto che quando il tecnico si liberò nel 2017 e la Juventus perse malamente la finale di Cardiff, mi sarei aspettata che Big Luciano approdasse infine sulla panchina bianconera.

Nel tempo ho incominciato a vedere quella definizione diventare un’etichetta sempre più scomoda e ingombrante per il mister di Certaldo.

È vero che Luciano Spalletti ha sempre rappresentato una garanzia per chi ambisce a un ottimo piazzamento senza però mai ottenere il primo.

Un successo nell’insuccesso, una sorta di ossimoro che per il mondo del calcio può diventare una delizia ma anche una croce.

Credo che per Spalletti la seconda abbia sorpassato di gran lunga la prima.

Perché il tabù vittoria per lui – fino a qualche giorno fa, almeno – è esistito in Serie A. Altrove, in Russia per la precisione, il tecnico aveva già provato l’ebrezza del titolo di campione, due volte alla guida dello Zenit San Pietroburgo. 

Questo, volente o non, crea un precedente, fa nascere dentro il seme del desiderio per cui alla fine non riesci più a spiegarti perché la stessa cosa non possa accadere nel paese e nel campionato in cui sei cresciuto.

E Luciano Spalletti è un mister fortemente ancorato alla sua terra e alle sue origini per riuscire a soprassedere a questa cosa.

È un allenatore ironicamente identificato come “l’ammazza Capitani”, per quello scomodo, scomodissimo ruolo di guida tecnica che dichiara “guerra” a colui che era diventato la Roma stessa, ossia Francesco Totti.

Il rapporto tra Luciano e Francesco ha dato vita a  una narrativa fin troppo complessa per comprenderne bene tutti i contorni.

Sicuramente, però, restituisce l’immagine di un uomo che non teme di prendere decisioni forti e impopolari, immagine che cozza con quella dello Spalletti aziendalista che sovente ci viene restituita.

Una vicenda per cui ha pagato forse un prezzo troppo alto, perché lo stesso Francesco, nel docufilm sulla sua carriera, non esita a sottolineare quanto l’allenatore toscano sia stato importante nel corso della sua carriera in giallorosso.

Perché nelle corde di Luciano Spalletti c’è quella capacità, direi tutta umana, di intervenire sui suoi giocatori toccandone le corde giuste, sia in campo sia fuori dal campo.

Eppure nonostante queste caratteristiche, che camminano di pari passo e che si associano a una personalità che non si può certo definire “debole”, Spalletti ha sempre rappresentato il tecnico bravo sì, ma cui manca sempre il colpo finale, quello che manda la palla in buca  (o in rete per restare in tema).

Quella sensazione di essere forte, ma non abbastanza. In gamba, ma non abbastanza. Capace, ma non abbastanza, mai abbastanza.

 

Il “Magnifico Perdente”, per l’appunto.

 

La scorsa stagione a Napoli, nonostante il terzo posto e il piazzamento in Champions – che per De Laurentiis era fondamentale – la tifoseria azzurra non gli ha risparmiato critiche e qualche contestazione.

Inevitabilmente, l’annata corrente era fondamentale per il suo rapporto con la piazza.

Avvezzo alle difficoltà che si presentano in tifoserie calde e contraddittorie (leggi Roma), Luciano, appoggiato dal Presidente, non si è fatto problemi – nemmeno stavolta –  a sradicare dall’undici partenopeo tutti quegli elementi ancora legati a un passato che stava cominciando a essere pesante da sopportare.

Gli serviva la certezza di poter lavorare in un ambiente tutto suo, per potersi finalmente giocare il tutto per tutto.

Perché, come lui stesso ha dichiarato, migliorare il terzo posto con un secondo non sarebbe stato un miglioramento.

Non lo sarebbe stato per il Napoli, non lo sarebbe stato per i tifosi ma soprattutto, non lo sarebbe stato per lui.

Allora, ecco che l’uomo prudente, l’uomo del “piazzamento sicuro in Europa” rischia, sapendo forse che, a 64 anni ormai compiuti, questa sarebbe stata l’occasione più ghiotta affinchè il “Magnifico Perdente” si trasformasse finalmente in vincente.

Una combinazione quasi irripetibile, quella di quest’anno.

Una concordanza tra uomini, società e città, intesa non solo come popolo ma anche come luogo, luogo di bellezza, di cultura, di accoglienza. 

Luciano Spalletti ha vissuto due delle città più belle e complesse d’Italia e forse non è un caso che in entrambe, per forza o per amore, nel bene e nel male, abbia lasciato il segno, amandole profondamente.

Perché dietro quell’aria canzonatoria che viene direttamente dalla sua terra, la Toscana, si cela un animo attento ai posti, agli affetti, alle persone. Anche quelle che sono mancate.

 

Si è detto più volte che, a differenza dei primi due che resteranno sempre gli scudetti di Maradona, questo è stato lo scudetto degli Undici. Da Osimhen a Kvaratskhelia, da Di Lorenzo a Lobotka, non c’è uno che abbia prevalso sull’altro.

Su tutti ha prevalso lui, però. Il Magnifico Perdente.

O se preferite, il Magnifico Vincente.

 

Daniela Russo