In occasione del triste anniversario della tragedia di Bruxelles ascoltiamo la testimonianza di Nereo Ferlat, sopravvissuto al massacro della Curva Z dell’Heysel  e portatore di un significativo messaggio

 

La memoria è un muscolo che va esercitato, ci dicevano sempre a scuola. Ma la memoria è anche una risorsa, un bene da tramandare affinché non si dimentichi; e la tragedia dell’ Heysel, quel 29 maggio 1985, è uno di quegli eventi che nessuno dovrebbe permettersi di ignorare. Ben lo sa Nereo Ferlat, che da quello stadio in quella stessa notte è uscito – soltanto per miracolo – indenne. Da trentatré anni ormai si è assunto il compito, la responsabilità di preservare la memoria di una tragedia calcistica che ha segnato per sempre la storia della Juventus ma che riguarda tutto l’universo del calcio.

L’idea di scrivere subito un libro (“L’ ultima curva”), la partecipazione attiva alle commemorazioni e a tutti gli eventi legati alla vicenda belga che portò via 39 persone, di cui 32 italiani; il forte legame con il “Comitato per non dimenticare l’Heysel”, di cui abbiamo tempo fa  in questa redazione illustrato il compito: sono soltanto alcuni dei modi in cui Nereo ogni anno si impegna per fare in modo che tutti, specie i più giovani, possano capire che quel  “-39”, che sovente campeggia negli stadi senza criterio alcuno, nasconde un enorme significato: non è uno sfottò, e non possiamo permettere che diventi tale.

Nereo, ci aiuta a ricostruire cosa successe quel giorno?

Io ero a Bruxelles già a mezzogiorno, quel 29 maggio. Per le strade della città incontravamo già gruppi di tifosi dei Reds che dall’aspetto e dal comportamento sembravano già carichi e facinorosi. Al momento dell’ingresso allo stadio, sono riusciti a introdurre di tutto all’ interno: proprio lì accanto c’ era un cantiere al quale si poteva accedere senza alcun problema. Allora i controlli certo non erano come oggi…

Ad un certo punto hanno incominciato a arretrare e avanzare, proprio come una carica. Una moltitudine, una folla che si muove quasi a voler sollevare una guerriglia. Eppure la curva Z era piena di famiglie, nessuno che avesse intenti bellicosi. Ho visto tantissima gente arrivare, eravamo tutti impauriti. Ho gridato: “Scappiamo”, poi il delirio: sentivo chiaramente che nel fuggire c’erano già persone a terra. Non avevo più aria nè saliva, ho cominciato a pregare convinto che sarei morto: paradossalmente, il crollo del muretto è stato provvidenziale.  Sono stato sbalzato in aria, mi sono ritrovato accanto a una crocerossina che mi ha dato dell’ acqua e mi ha aiutato a riprendermi. Poi mi sono diretto verso la trbuna stampa, là dove Pizzul si prodigava per dare notizie ai tanti telespettatori in ansia. A lui ho portato testimonianza di quanto stava accadendo.

Una vicenda terribile che oggi viene accomunata a un banale sfottò da stadio…

Sì, è pazzesco questo risvolto che ha assunto l’Heysel. Questo accade perchè molti ignorano i fatti, i più giovani soprattutto. Altri conoscono la vicenda solo in modo marginale, ignorandone la portata. Chi ha visto, chi ha assistito dovrebbe incaricarsi della responsabilità di divulgare la verità in modo che non venga banalizzata. L’Heysel è stata una tragedia nazionale. Non è solo un dolore che riguarda la Juventus.

La struttura dell’ impianto era davvero così terribile come si dice?

Assolutamente. Dava l’impressione di potersi sbriciolare da un momento all’ altro. Fatiscente, inadeguato a un evento di tale portata. I pezzi di porfido si staccavano con una facilità impressionante, si vedeva crescere l’erba tra gli spalti: tutto gridava al degrado. Non era  nemmeno la prima volta che quello stadio veniva imputato: nel 1980, in occasione di Arsenal-Benfica valida per la Coppa delle Coppe,  l’allenatore della squadra inglese aveva sottolineato la pericolosità della struttura. La Uefa tuttavia ritenne opportuno ignorare la cosa…

(immagine da ilgiornale.it)

La Uefa tra l’altro ha glissato a lungo sulla sua responsabilità.

Ci sono voluti anni per avere l’ufficialità della sentenza e più di 200 viaggi a Bruxelles da parte di  Otello Lorentini (padre di Roberto, una delle vittime di quella notte, n.d.r.), intenzionato insieme ad altri familiari a rendere giustizia ai poveri defunti e a far emergere la verità sulla  Uefa, che ha lasciato per troppo tempo che fosse la Juventus ad assumersi la maggior parte delle colpe.

Alla Juve è stato detto di tutto per aver accettato di disputare la partita: ma non c’erano alternative, svuotare lo stadio avrebbe trasformato il tutto in un’ ecatombe. L’ordine pubblico andava salvaguardato, e non poteva certo farlo la polizia locale, tra l’altro giunta in ritardo a cercare di contenere l’ impatto degli Hooligans. Sia la Juventus sia il Liverpool hanno giocato, non hanno recitato una farsa: hanno fatto ciò che era stato chiesto anche per quelle povere persone, non c’è alcuna colpa in questo. Sicuramente, per quanto io ne sappia, i bianconeri non avrebbero voluto giocare.

Quando è nata l’idea di raccontare tutto nel suo libro?

Praticamente da subito. Quando sono rientrato a casa, ho rivisto la partita e compreso la portata di quello che era accaduto, nello stesso tempo mi rendevo conto che tutto cadeva nel dimenticatoio troppo velocemente. E mi sono detto che non andava bene, che non dovevo permettere che si dimenticasse una cosa così: una tragedia, non soltanto per la Juve. Non dimentichiamo che tra gli italiani c’erano anche tre tifosi dell’ Inter, che si erano recati allo stadio per accompagnare i loro cari. E’ una tragedia nazionale e calcistica, senza colori.

Anche la Juventus è uscita dal suo lungo silenzio…

Al Museum ora c’è una sala tutta dedicata all’Heysel, in cui si racconta tutto dettegliatamente ; inizialmente in piazza Crimea a Torino fu subito erretto un monumento. Le commemorazioni  si svolgono anche in altre città, ove si radunano i parenti delle vittime. Da questo punto di vista il “Comitato” di Reggio Emilia svolge un lavoro encomiabile, grazie a Iuliana e Roberto Garlassi.

Perchè il 29 maggio non è una data solo bianconera: è, come ha detto il nostro amico, una tragedia di tutti quelli che amano e vivono il calcio. E anche di chi non lo ama.

Tutti, in qualche modo, siamo chiamati a tramandarne il ricordo.

Noi oggi sentiamo di doverlo fare così: con le parole di chi, neanche volendo, potrà mai dimenticare.

Daniela Russo


 

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                             “Siamo i custodi di una memoria, lo facciamo per amore”:

                              intervista a Iuliana Bodnari