Da tempo si ragiona sull’adozione del salary cap nel mondo del calcio.
Gravina non è contrario, ma a patto che sia a livello europeo

Quante volte abbiamo criticato i giocatori che troppo spesso si muovono e scelgono una maglia più per il contratto-ingaggio che per vero attaccamento a una realtà e a un progetto…(?!)

Per non parlare di giocatori e club che ingaggiano duelli a suon di rinnovi (e pretese economiche).

Quante volte abbiamo appurato che nel nostro campionato  esiste un dislivello ampissimo tra le cosiddette big (i club più ricchi per svariate ragioni) e le provinciali?

Quante volte abbiamo criticato la mancanza di competività del nostro campionato… (?!)

Siamo anche consapevoli che il Covid 19 – e la conseguente crisi economica – sta avendo e continuerà ad avere grosse ripercussioni anche sul mondo del calcio.

Conseguenza di ciò, infatti, è l’invito dei club ai propri tesserati ad abbassarsi gli ingaggi.

Cosa fare per cercare di risolvere tutte queste criticità? 

Una soluzione ci sarebbe e si chiama Salary Cap o Tetto salariale o anche detto tetto degli ingaggi. 

Si tratta di una regola che limita le possibilità di spesa di una società sportiva.

Consiste nello stabilire la cifra massima stagionale che  una squadra complessivamente può spendere per gli ingaggi dei propri giocatori.

In altre discipline esiste già questo tipo di sistema e  alcune Leghe calcistiche stanno iniziando a metterlo in pratica (o stanno valutando di attuarla).

Ad esempio,  in Inghilterra per quanto riguarda il rugby; in Australia,  anche per il  football e il calcio calcio; negli Stati Uniti e in Canada per  NFL, NHL, NBA e MLS; in Cina è stato introdotto lo scorso gennaio nella Chinese Super League.

Ognuna di queste, tuttavia, ha regole proprie.

Basti pensare che anche la Liga spagnola potrebbe essere annoverata ma il sistema adottato non colma del tutto il gap tra i club più facoltosi e gli altri.

In Spagna, infatti, la Liga annualmente comunica a ciascun club l’ammontare spendibile per i salari dei propri calciatori: questo tuttavia è un calcolo  in funzione della propria solidità finanziaria, dei propri ricavi e dei debiti accumulati.

Anche in Italia si inizia a pensare all’adozione di un sistema controllato e regolamentato di spesa:  per dovere di cronaca, c’è da dire che la sperimentazione è stata già attuata.

Nella stagione 2013/2014, infatti, CONI e FIGC introdussero in tetto massimo di 300 mila euro per gli ingaggi dei calciatori della Serie B di quell’annata.

Come possiamo dedurre il problema non è solo italiano e soprattutto, troppe differenze da luogo a luogo potrebbero rivelarsi più controproducenti che benefiche.

E’ per questo che il presidente della Figc, Gabriele Gravina, chiede alla Uefa di strutturare il tutto a livello europeo.

“Sarebbe controproducente se in Italia facessimo i virtuosi e gli altri Paesi, le altre leghe, no: verrebbe depauperato il patrimonio tecnico del nostro campionato” spiega il presidente della Lega di Serie A, Paolo Dal Pino.

Perché è ovvio che se fosse solo un campionato (in questo caso la Serie A) a porre un limite ai compensi, perderebbe giocatori e di conseguenza competività internazionale e appeal.

Il ragionamento è più che condivisibile, non si può pensare a ridurre la forbice tra club più ricchi e quelli con minori possibilità sono in Italia perchè, a livello europeo ciò renderebbe tutti i club nostrani più deboli.

Al contrario, con un tetto stabilito a livello europeo, nessuno potrebbe rafforzarsi in modo squilibrato rispetto alle avversarie e, allora sì che sarebbe il campo a dire l’ultima parola.

 

Micaela Monterosso