C’è stato un tempo in cui il Primo Maggio era caldo e assolato, quasi estivo. 

Ma poi sono arrivate lacrime da tutto il mondo a coprire la luce e il calore del sole.

Nel 1994, il Primo Maggio, si corre a Imola. Una pista arcigna, ostica, difficile. Quel giorno ancora di più. Il sabato, nelle libere, è appena deceduto il pilota austriaco Roland Ratzenberger, schiantandosi contro il muro della curva Villeneuve a una velocità di più di 300 km/h.

Lo spettro della paura serpeggia silenziosa sui partecipanti e soprattutto sul grande Ayrton Senna, un senso di irrefrenabile inquietudine lo assale. Non sa darsi pace per il compagno scomparso, sa che quella pista – quella maledetta pista – è pericolosa. Con quelle due curve, la Tamburello e la Villeneuve, dove il piede schizza sull’acceleratore tanto quasi da prendere il volo.

Non trova quiete, il campione brasiliano. Neanche tra i versetti della Bibbia, lettura preziosa prima di ogni corsa.

Sale nell’abitacolo con una bandierina dell’ Austria, vuole sventolarla al traguardo perché quella morte – così assurda anche per lui, che pure crede in Dio – non lascia la sua mente nemmeno per un attimo.

Vorrebbe  poter non salire sulla sua macchina, dimenticare autodromo, scuderia, pure le continue baruffe con Alain Prost. Farebbe qualsiasi cosa pur di non correre.

Sono le 14 e 20 circa quando la mente di Ayrton smette di pensare. Il piantone dello sterzo della sua monoposto – quello stesso piantone che aveva chiesto lui stesso di modificare, per beneficiare di maggiore efficienza – cede e il pilota perde il controllo dell’auto.

L’impatto contro la Tamburello è terrificante. Nell’urto, il puntone della sospensione anteriore destra penetra nella visiera del casco del brasiliano, sfondandogli l’osso temporale.

Un braccetto. Uno stupido, insignificante pezzo di plastica.

A nulla valgono i tempestivi soccorsi. Il trauma cranico è troppo grave, Senna muore poche ore dopo all’Ospedale Maggiore di Bologna, senza mai riprendere conoscenza, lasciando devastati il mondo della Formula 1 e dello sport tutto, il Brasile – dove era adorato – e persino il suo storico rivale francese, con il quale si detestava cordialmente.

La bandiera austriaca è lì, accanto alla sua seduta, intrisa del suo sangue. Non sventolata, ma accomunata a quella verde oro da una stessa fatale sorte, che il trentaquattrenne fenomeno brasiliano aveva profondamente e inesorabilmente sentito arrivare.

La morte che tante volte lui aveva sfidato, guardato in viso e poi passato oltre, se lo è preso con un banalissimo braccetto dal valore di pochi spiccioli.

Il suo ricordo resta indelebile in tutti coloro che lo hanno amato, invidiato, osannato; in tutti gli amanti di questo pericoloso e appassionante sport; in tutti quelli che ne hanno conosciuto l’aspetto più dolce, intimo, semplice di un ragazzo che spazzava via le sue incertezze con la fede. 

A venticinque anni da quel giorno, Ayrton Senna resta per molti un campione speciale: un antidivo con il mantello da Supereroe, che in silenzio è andato incontro a quello stesso destino che aspetta tutti noi, solo con una maggiore certezza  e con una paura che, forse, nessuno veramente potrà mai immaginare.

“Siamo insignificanti. Per quanto tu possa programmare la tua vita, in un attimo tutto cambia”.

Daniela Russo