Due concittadini che si trovano rivali per due ore, allo stadio Grande Torino: sono Fabio Pisacane e Armando Izzo, uno con la maglia di Casteddu, l’altro con quella del Toro.

Due ragazzi scampati a un destino che, senza il calcio, chissà quale sarebbe stato.

C’è un film  – diventato poi un cult negli anni ’90 – di Nanni Loy, intitolato “Scugnizzi”. Una drammatica, amara ricostruzione della storia di un gruppo di ragazzini rinchiusi nel carcere minorile di Nisida, che getta una luce fredda sulle motivazioni – tutte tremendeche hanno portato quei giovanissimi alla reclusione.

Motivazioni che sovente affondano le loro radici nello status sociale in cui quei ragazzi si trovano a crescere, a fare i conti tutti i giorni sin da piccolissimi. Quei quartieri difficili in cui sembra non esserci la luce, nemmeno per la speranza di un futuro più roseo.

Forse Pisacane pensava proprio a questa realtà, quando ha postato la foto di lui e Izzo abbracciati, su Instagram:

“In questo abbraccio c’è tutta la nostra amicizia. Un qualcosa che, negli anni, ha superato le avversità che si erano poste tra noi e il nostro obiettivo”.

Perché le avversità sono così,  grandi tanto da sembrare insormontabili agli occhi di due adolescenti che vogliono cambiare vita, vogliono solo smettere di essere due ‘scugnizzi’ e fare ciò che amano: giocare a calcio. Fabio e Armando sono stati forti e ci hanno messo ‘sacrificio e dedizione’ per sovvertire un destino che poteva essere già scritto.

Giovani eppur costretti a diventare uomini così in fretta, tra la morte di un genitore (il padre di Armando) e una malattia che sembrava insormontabile (la sindrome di Guillain-Barré che colpisce Fabio):  sempre senza mai mollare, senza rinunciare  a quel sogno, troppo più grande di tutto e di tutti.

“Il bene, alla fine, trionfa sempre. E noi ne siamo un esempio”.

Così chiude Pisacane il post, un finale che sembrerebbe scontato ma non lo è. E’ chiaro tra le righe il riferimento alle accuse di calcioscommesse e coinvolgimenti mafiosi, decadute per entrambi. Perché se è vero che la storia del pallone è piena di racconti drammatici in cui quella sfera di cuoio ha fatto molto di più di quello che potrebbe, è vero altrettanto che  c’è solo una strada per arrivare a alzare la testa, per non soccombere a eventi già tracciati,  per non finire  solo a  recriminare sulle occasioni perdute.

Sono storie di calcio e di vita che si intrecciano: del resto accade molto più spesso di quello che appare a noi lettori distratti,  che dimentichiamo – troppo in fretta – quante cose possano nascondersi sotto quella maglia che amiamo o che non vorremmo mai vedere.

Perché il calcio, si sa, non è mai soltanto un gioco.

Daniela Russo