Aveva commosso il mondo, Murtaza.

In mezzo alla disperazione e alla paura che si vive in una terra martoriata come l’Afghanistan aveva trovato il modo di rendere le giornate meno tristi, i pensieri più leggeri.

Era il 2016 e il piccolo Murtaza Ahmadi aveva fatto il giro del mondo immortalato in un’istantanea che lo ritraeva con indosso una busta di un supermercato trasformata con i pennarelli in un’improvvisata maglia dell’Argentina con il nome di Messi.

Lo stesso campione vide la fotografia e il piccolo tifoso fu invitato in Qatar per assistere ad un’amichevole del Barcellona, conoscere il suo idolo e tornare a casa con la maglia, quella vera, autografata e gli occhioni scuri pieni di meraviglia. 

La sua casa era sino a poco tempo fa in una zona del Paese ritenuta più sicura di altre, nel distretto di Jaghori, dove vive la minoranza etnica sciita Hazara.

Ma alcune settimane fa i talebani hanno attaccato anche quella sorta di isola felice, o meno infelice di altre, con il tragico seguito di morte e terrore, di stragi e di saccheggiamenti, di attacchi pesanti e mirati allo sterminio.

Murtaza non ha più una casa. 

E’ ospite con la famiglia in un centro di accoglienza a Kabul.

L’avanzare delle truppe e i bombardamenti hanno costretto il bimbo e la sua famiglia a scappare di corsa, nella notte. 

Murtaza non ha avuto il tempo di portare con se le maglie ricevute da Leo (una dell’Argentina e una del Barcellona) né tantomeno il pallone che il campione gli aveva regalato, oggetti che custodiva come una reliquia.

Sapevano di qualcosa di bello che era riuscito ad avere.

Non solo.

Non ha più un pallone con il quale giocare e cercare di stemperare la paura ma non può neppure uscire per strada e improvvisare con degli stracci un pallone di fortuna perché la gente del posto pensa che Messi abbia donato alla sua famiglia dei soldi: “Abbiamo paura che qualcuno rapisca Murtaza per chiedere un riscatto che non possiamo pagare”, ha raccontato il fratello Humayoon all’agenzia giornalistica internazionale EFE. 

La guerra stravolge tutto, reinterpreta tutto, spesso nell’ottica di cercare in qualche modo di sopravvivere, anche pensando di rapire un bambino che di nuovo non ha altro se non una busta di plastica per cercare di sognare.

 

Silvia Sanmory