Già all’ indomani della conferenza in cui il numero uno annunciava il suo addio alla Vecchia Signora circolava la voce che il portierone avrebbe vestito la maglia blu del club parigino.

Mesi di silenzio, poi l’ufficialità: contratto di un anno (più opzione per il secondo) dal valore di 4 milioni stagionali, più eventuali bonus.

 

Lo stesso Gigi, quel 17 maggio,  aveva più volte evidenziato come in lui il desiderio di continuare a giocare fosse ancora intenso alla fine di una stagione in cui le prestazioni positive lo avevano portato a rivedere i suoi piani di ritiro dal rettangolo di gioco.

E fin qui tutto normale, ci sta un ripensamento, un mutamento di idee.

Chi non è stato del medesimo avviso è stata la Juventus, già proiettata in un’ottica di rinnovamento della squadra: la dirigenza ha chiaramente fatto intendere che l’unico posto ancora disponibile per “SuperGigi” fosse dietro a una scrivania.

E così l’eterno bambino che ancora vive in Buffon non ha saputo resistere alla tentazione di stare ancora sotto i riflettori respirando il profumo dell’erba, ma forse – e diciamo forse – ancora di più a quella magnifica ossessione che si chiama Champions League.

La reazione dei tifosi bianconeri non è univoca a questa decisione.

C’è chi comprende e va oltre, c’è chi non accetta che un volto così tanto a lungo bianconero possa aver preso una tale strada.
Questo porta inevitabilmente a analizzare più da vicino la posizione del portiere e della società, entrambi responsabili e entrambi colpevoli di questo inaspettato finale.

Responsabile e colpevole la Juventus che, in questa ‘nuova’ gestione Agnelli, lascia intendere come non ci sia più spazio per il sentimento in una grande azienda in salute.
Sì, perchè la Juventus è, oggi, prima un’azienda (con tutti i pro e contro che ne concerne) e dopo una famiglia. Come tale non si fa più di tanto scrupolo a sostituire – o addirittura mettere da parte – le bandiere. Vedi Del Piero, vedi il prossimo, Claudio Marchisio, al quale silenziosamente è stato dato il pass d’addio.
In questo aspetto la dirigenza bianconera rappresenta in toto quel cinismo che tante volte la squadra in campo mostra e ha mostrato: tutto è sacrificabile in nome della Causa (o della cassa, la lettura è ambigua); per dirla come i tifosi, ciò che conta è la maglia. E Andrea Agnelli, giovane manager sulla cresta dell’onda, ha dimostrato di non avere nulla o poco più del profondo affetto che il grande Giovanni nutriva per la sua Signora e di conseguenza i suoi simboli.

Responsabile e colpevole appare anche il Numero Uno dei Numeri Uno: implacabile sognatore alla ricerca di sfide, potremmo appoggiarlo se la sua sfida fosse stata cercata lontano dalla Vecchia Signora. Invece, la voglia di apparire e di continuare a essere una stella, unita al quel desiderio violento che assume la forma di una Coppa dalle Grandi Orecchie, lo hanno spinto a una scelta sconsiderata.
Giocare nel PSG, giocare in Europa implica la possibilità che Gigi possa incontrare la Juventus da avversario: un’ipotesi che sa di blasfemia e che sicuramente il portiere avrà considerato, ma nonostante tutto ha deciso comunque di accettare il trasferimento.

Tutti gli innumerevoli tentativi di giustificarlo cadono miseramente allorchè  per anni si è proclamato una cosa sola con la Juve: impossibile assolverlo fino in fondo. Impossibile non pensare allo stesso Del Piero, o a Andrés Iniesta, che – proprio come lui –  ha lasciato il Barcellona nella stagione appena conclusasi dichiarando che mai avrebbe potuto giocare contro i Blaugrana.

Forse né la Juventus, né Buffon hanno considerato quanto il destino, talvolta, possa essere beffardo: augurandoci di non dover mai scrivere, un giorno, di una Juve battuta da SuperGigi, o viceversa. Sarebbe scrivere, per l’ennesima volta, della morte di un calcio sempre più raro.

 

Daniela Russo