A colloquio con Francesco Morini, glorioso difensore della Juventus degli anni ’70 e dirigente sportivo bianconero che ci racconta le emozioni di una vita spesa per il calcio, tra umiltà, caparbietà, rispetto e forza di volontà

“Anche stando in panchina o ai bordi del campo c’è tutto da imparare; se hai occhio critico impari anche se fai la riserva. Nella mia vita ho sempre cercato di imparare guardando per fare tesoro delle prestazioni di chi era più bravo di me. Ho sempre cercato di superare i limiti che sapevo di avere, di essere sempre all’altezza, anche per rispetto dei tifosi”.

In questa affermazione è cristallizzata l’umiltà, la caparbietà e la forza di volontà di Francesco Morini, glorioso difensore della Juventus degli anni ’70 (e della Nazionale) che ho avuto il piacere di incontrare ed intervistare invitata dall’Associazione Sportiva della Deltratre, azienda leader nelle digital solution per grandi eventi sportivi (dalla Champions ai Mondiali di calcio sino al Superbowl ecc.).

 

 

Di lui, nei giorni precedenti, ho letto soprattutto di leggendari “duelli” in campo con Gigi Riva (che non è mai riuscito a segnare contro Morini), iniziati nel 1969 all’Amsicora di Cagliari e proseguiti per anni tra rispetto ed ammirazione reciproca che non bada di certo ai diversi colori di appartenenza.

Ho letto di quel nomignolo, Morgan, che un giornalista gli ha affibbiato per la sua caratteristica di giocare “depredando” l’avversario come il pirata dell’omonimo film, sicuramente però meno irrispettoso del bandito dei mari visto che raramente commetteva fallo.

“Sono figlio di contadini della provincia pisana – ci racconta durante la nostra chiaccherata – e il mio primo campo da calcio è stata la parrocchia.

A questi tempi non c’erano le partite da seguire in tv, non avevo una squadra o un campione del cuore, non esistevano le scuole calcio; avevo soltanto un pallone da calciare. Un istinto da seguire. Una passione da coltivare”.

Arriva alla Sampdoria nel 1964, ventenne, inizialmente come ala e si mette in luce con diverse azioni di livello; ma la sua consacrazione con il ruolo di stopper avverrà con la Juventus, squadra nella quale ha militato come calciatore dal 1969 al 1980 e in seguito come direttore sportivo sino al 1994.

Nonostante le sue 372 presenze, la conquista di cinque Scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Uefa, Morini non ha mai segnato un gol (se non in un’amichevole in Inghilterra): “E’ sicuramene un record anche questo – ci dice divertito – i miei stessi compagni mi arrestavano al momento giusto portandomi via la palla per evitare che perdessi questo primato! Scherzi a parte, penso che il mio gol lo facevo quando impedivo all’uomo che marcavo di segnare, di andare in vantaggio su di noi”.

Mentre annoto questo passaggio, mi sono chiari altri due aspetti della personalità di Morini: la positività sempre e comunque e un piacevolissimo senso dell’ironia.

Come quando ci racconta con enfasi della multa da 100.000 lire se al termine di una partita si regalava ad un tifoso la maglia (“Non ci davano mai maglie, da tenere un anno come una reliquia”) o di quando, a Belgrado nel 1973 durante la finale di Coppa Uefa persa dalla Juventus contro l’Ajax, pressati ed incalzati dagli avversari lui disse ai compagni: “Contiamoli, mi sa che sono in sedici!”.

A proposito di avversari, Morini cita tra i più ostici per lui sicuramente Graziani, Boninsegna e Giordano: “Con lui ricordo una partita disputata a Roma contro la Lazio, Giordano riesce a stoppare la mia palla e a fare gol. In ogni caso marcare l’avversario è fondamentale per evitare di andare in svantaggio con la conseguenza che per recuperare si deve amministrare un sacco di campo e di fatica in più. La mia forza era l’anticipo che è terribile per l’avversario. Come dicevo: ‘Munizione che non arriva, cannone che non spara’. Ho sempre avuto i piedi di gesso, per così dire, ma ero sveglio a recuperare. In generale ai miei tempi rispetto ad oggi andavamo tutti come razzi”.

Nel suo viaggio della memoria condiviso con noi, un posto d’onore lo occupa il ricordo dell’Avvocato: “Un vero e proprio innamorato del calcio, cultore in particolare di Sivori e di Platini, esaltava quest’ultimo non solo come campione sportivo ma soprattutto come uomo di carattere ed intelligenza”.

Quando chiedo a Francesco quale è il ricordo più bello della sua carriera agonistica mi risponde: “La cosa più bella è stato l’esordio in Serie A ma in realtà anche  tutte le partite che ho giocato e il miglioramento che rincorrevo e vedevo in ognuna di esse; ho sempre avuto il massimo rispetto per il calcio e per le persone che mi hanno permesso di concretizzare il mio sogno, ho fatto vita sana e sono stato costante per continuare a giocare il più a lungo possibile”.

Perchè per Francesco non è mai esistita la noia del pallone.

Solo un’incontenibile ed inarrestabile letizia.

Silvia Sanmory