“Voglio diventare il migliore al mondo. E tu devi aiutarmi”.

(Photo by Alex Grimm/Bongarts/Getty Images)

In questa frase, detta da Cristiano Ronaldo al suo preparatore atletico durante i tempi in cui militava al Manchester United, c’è condensata la sua filosofia di vita.

Ed è di questa che vi parlerò, al di là dei numeri del fuoriclasse portoghese che tutto il mondo conosce e riconosce.

All’epoca dei fatti Cristiano è ancora un ragazzino, inglese stentatissimo, improbabili ciocche bionde, look poco British che fa storcere il naso al direttivo del rigoroso club inglese, eppure è risoluto e concentrato nel trasformare il suo sogno in realtà, consapevole di dover migliorare, oltre alle prestazioni in campo, il suo fisico ancora poco adatto all’aggressività del calcio britannico.

La storia di Cristiano Ronaldo è la storia del calcio come assoluto sin da quando bambino tira calci ad una palla anche dieci ore al giorno, tra i vicoli tortuosi e diroccati di Funchal, capitale di Madeira; un loop infinito composto di tre momenti: calciare, migliorare, allenarsi. E da capo.

I vicini ricordano acrobazie incredibili con un tappo di plastica fatto palleggiare all’infinito, involucri di carta trasformati in palle di fortuna palleggiati senza che mai toccassero terra.

Il calcio è un modo per distaccarsi dal contesto non favorevole in cui vive, famigliare ed ambientale, e soprattutto il modo per trovare un riscatto.

L’unico modo possibile per soddisfare anche la grande fiducia che ha sempre avuto in se stesso.

Non mi stupisce imbattermi in dichiarazioni di ex compagni dello Sporting, squadra che lo ha reclutato dodicenne, nelle quali si parla di quando Cristiano giocava contro gli allievi più grandi di lui lasciandoli di stucco; merito anche degli allenamenti supplementari ai quali si sottopone; più di una volta entra di notte, senza permesso, in palestra per un training di pesi e corsa sul tapis roulant. Si mormora che l’entourage della squadra, temendo gli effetti di un surplus di allenamento, abbia messo sotto chiave la palestra…

Cristiano passa ore su You Tube  a documentarsi sui trucchi del mestiere, ore a copiare quelli intercettati durante gli allenamenti, tentando di migliorarli e adattarli, e spesso a detta dei diretti interessati superando il maestro.

Ha quasi dell’incredibile pensare che arrivato al Manchester il ragazzino un pò spocchioso ma che lascia tutti a bocca aperta per le sue qualità e il suo coinvolgimento, in parte rivoluziona la cultura calcistica del club, notoriamente tradizionalista.

E lo fa utilizzando il torello invece che per esercitarsi soltanto nei passaggi per perfezionare la tecnica di gioco: mantiene il possesso palla e finta dopo finta, passaggio dopo passaggio, tackle dopo tackle anche i suoi compagni iniziano a fare altrettanto.

In poche parole va a Ronaldo il merito di aver introdotto il torello continentale nella prassi del blasonato club inglese.

Non solo: le tecniche sperimentate nel torello vengono introdotte nelle partite e addirittura Cristiano comincia ad esercitare un “effetto Cantona”, ossia tutti vogliono emularlo: “Se ci riesce lui, possiamo farcela anche noi”.

Chapeau.

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Back on track ???

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Ronaldo si è “costruito” grazie alla forza mentale, oltre che fisica, alla concentrazione costante e aggiungerei alla maniacale attenzione ai dettagli.

Dico questo a ragion veduta, dopo essermi imbattuta in un dettaglio che riguarda la preparazione alla finale di Champions del 2008, vinta dal Manchester.

Quando al campo di allenamento arriva il pallone che sarà utilizzato per la finale, Ronaldo si accorge che è leggermente diverso nel peso e nella superficie rispetto a quelli usati durante il resto del torneo. Così chiede alla squadra di fermarsi dopo l’allenamento.

Prova e riprova tiri da distanze diverse, colpi con il collo del piede e con l’interno, cerca di imprimere il massimo effetto al pallone colpendolo sulla valvola ma non è soddisfatto del risultato.

Chiunque al suo posto si sarebbe arreso. 

Ma non lui.

Il giorno dopo ritenta l’impresa e il tiro va a rete e anche i successivi. 

A rendere il pallone inarrestabile è un semplice passo indietro aggiunto durante la rincorsa, un dettaglio.   

“Solo i deboli si danno per vinti” del resto è un mantra che lo accompagna sin da quando papà Dinis pronunciò queste parole riacciuffandolo sulla via di casa dopo che il piccolo Cristiano era fuggito dal campo dell’Andorinha, club locale dove ha mosso i primi passi, perché sapeva che la squadra avversaria li avrebbe battuti.

In effetti andò proprio così, sconfitta bruciante, ma da quel giorno il futuro Cr7 non si sarebbe più dato per vinto e, per dirla citando Alex Del Piero, avrebbe continuato imperterrito ad essere “affamato di vittoria”.

Silvia Sanmory